giovedì 3 novembre 2011

Gli sfiorati


Interprete di un modello produttivo emancipato dal paludismo dei soliti interlocutori, Domenico Procacci è riuscito nel corso degli anni ad affinare le sue doti imprenditoriali lasciando che l'istinto del talent scout (Muccino, Rolf de Heer, Carlei, Vicari solo per fare alcuni nomi) si contaminasse di un pragmatismo che deve molto alla spiccata attinenza del nostro a confrontarsi con realtà extra nazionali. Il risultato è stato una realtà chiamata Fandango, progetto la cui dimensione non si ferma solamente al prodotto cinematografico ma comprende anche quello editoriale, discografico e ricreativo, con l'apertura di uno spazio interamente dedicato ai fan del suo cinema. Un universo poliedrico capace di far dialogare le singole componenti in maniera sinergica. "Gli sfiorati" di Matteo Rovere ne potrebbe essere un esempio lampante. Traduzione per immagini dell'omonimo libro di Sandro Veronesi, uno dei pezzi pregiati della scuderia guidata dal prolifico enfant prodige pugliese, il film è il resoconto di una crisi, personale ma anche generazionale, vissuta attraverso le vicenda di Méte, giovane grafolo tormentato dalla perdita della madre e disorientato dall'imminente matrimonio del padre in procinto di sposarsi con la donna per la quale a suo tempo aveva lasciato la famiglia. La situazione diventa critica quando la sorella di cui è segretamente invaghito decide di trasferirsi presso di lui. Il tentativo di evitarla si trasformerà in un deragliamento psicologico e sensuale che indirettamente coinvolgerà anche Bruno, collega di lavoro depresso per una recente separazione, e Damiano, amico perdigiorno e ruba femmine.
Alle prese con un canovaccio che fin dall'enunciazione del titolo si propone di rappresentare i comportamenti di una gioventù apatica ed anaffettiva - denominati da Bruno gli sfiorati per il fatto di attraversare qualsiasi tipo di esperienze senza lasciarsene coinvolgere- il film di Matteo Rovere sembra mettere in scena alcuni must del suo produttore a cominciare dai motivi della crisi, qui come altrove ("L'ultimo bacio") frutto di un malessere esistenziale a cui non è estranea la componente famigliare, e destinato ad esplodere con l'entrata in scena di un corpo conturbante ed adolescenziale - Belinda interpretata con un misto di innocenza e trasgressione da Miriam Giovanelli ricorda Francesca Martina Stella il personaggio interpretato da Martina Stella nel film di Muccino - capace di portare a galla i fantasmi di una personalità, quella di Metè, fragile ed irrisolta. E poi nello sviluppo di una parabola esistenziale che alla maniera di un film come "Il passato è una terra straniera" (altro film Fandango datato 2008), costruisce un percorso di smarrimento e di perdita alla fine del quale è possibile iniziare la nuova vita. A rafforzare la sensazione di rendez - vous c'è poi la scelta di eliminare quasi del tutto l'introspezione a favore di un'analisi costruita dall'esterno, con i caratteri dei personaggi ricavati dall'associazione con elementi che gli appartengono in maniera indiretta, come il decor degli ambienti esibito con il relativo sovraccarico di oggetti, un' acconciatura di capelli come quella sbarazzina e sempre in piega che Beatrice usa per soffocare l'amarezza di un esistenza insoddisfacente, la scelta di vestiti succinti come quelli di Belinda che ne enfatizzano il carattere istintivo e diretto, oppure dalla presenza di una canzone, il finale è suggellato da un hit di Eros Ramazzotti, utilizzata come manifesto poetico della storia.


Strategie che indipendentemente dalla loro origine potrebbero funzionare se supportate da un idea forte che in altri momenti era stata lo specchio di un attualità ritratta attraverso i tic e le abitudini di un campione della nostra società. In questo caso invece il film di Matteo Rovere appoggiandosi su un romanzo scritto agli inizi degli anni 90 finisce per parlare di un umanità ormai superata. I suoi personaggi pur facendo leva sull'insopprimibile guasconeria latina che il film si porta in dote con il personaggio di Michele Riondino, una specie di Lucignolo fanfarone ed inaffidabile, finiscono per assomigliare a quelli che fluttuavano senza meta nei romanzi di Brett Easton Ellis o in un film come "Meno di zero" e, per tornare a tempi più recenti ai rampolli hollywoodiani descritti da "The Informers"(2008). Ed anche quando il film tira giù la maschera e si propone come ennesima variante di un machismo costretto a fare i conti con una nemesi femminile di irresistibile richiamo, lo fa con ammiccamenti e luoghi comuni (le inquadrature di Belinda distesa sul letto con mutandine in primo piano sembrano prelevate dal filone di "Malizia"). Matteo Rovere già abituato a mettere in scena lolite mangia uomini ("Un gioco da ragazze",2007) confeziona un film che alterna momenti di ordinaria amministrazione ad altri, come quelli in cui il protagonista è vittima di ripetute allucinazioni che lo fanno vedere levitare nella sua forma astrale, in cui lascia presagire potenzialità che nel film rimangono inespresse. E se la sceneggiatura penalizza i ruoli secondari lo stesso non si può dire per quelli interpretati da Andrea Bosca e Miriam Giovanelli: seppur all'interno di un contenitore che tende a normalizzare le peculiarità, entrambi e per opposti motivi riescono a rendere credibile quello che fanno. Il primo lavorando di sottrazione, la seconda contenendo i rischi di un eccessiva tipizzazione. Sono loro la vera sorpresa del film.
(pubblicata su ondacinema.it)