martedì 27 marzo 2012

Romanzo di una strage

Marco Tullio Giordana come James Ellroy. Il paragone a prima vista stridente per le differenze di mestiere e di metodo – il primo si attiene ai fatti della storia, il secondo li mescola ad elementi di fantasia – diventa invece appropriato in un disegno generale che per entrambi ha come unico scopo quello di raccontare con le forme del romanzo criminale ed in maniera definitiva il lato oscuro dei rispettivi paesi. Parafrasando uno dei titoli più famosi del grande romanziere si potrebbe dire che Giordana firma il suo “Italian Tabloid” fissandone le origini a partire dalla strage di Piazza Fontana che nel 1969, con la morte di 17 persone, diede il via alla cosiddetta strategia della tensione, una forma di governo occulto che utilizzava il terrorismo di destra e di sinistra ma anche anarchico, per destabilizzare i tentativi di un cambiamento politico e culturale, prefigurati dall’ascesa del partito del partito comunista italiano che in quegli anni si andava affermando come la forza politica capace di insidiare lo strapotere della democrazia cristiana. L’esplosione di quella bomba fu il Big bang che spostò in avanti i limiti del lecito dando il via ad una stagione di terrore che assomigliò ad una guerra civile giocata all’insaputa del paese. A rendersene conto nel film sono il commissario Calabresi, responsabile delle indagini che portarono al fermo dell’anarchico Pinelli, della cui morte avvenuta in circostante mai chiarite fu ingiustamente accusato, ma anche Aldo Moro, statista inviso ai suoi compagni di partito ed all'America, in virtù di un apertura al partito comunista italiano che rischiava di mettere in crisi gli equilibri dell'allenaza atlantica in Europa, e molti di quei politici e funzionari di stato che nell'opera di depistaggio agirono al servizio dei vari centri di potere.

Ma il film è soprattuto una contrapposizione di uomini ed organizzazioni, di istituzioni che non esistono più – tra questi il SID (servizio segreto militare) – di movimenti come quello anarchico che hanno ormai perduto la loro forza aggregativa, oppure di gruppi clandestini armati come quello facente capo al generale Valerio borghese, e poi ancora di figure come Valpreda, Ventura, Stefano delle Chiaie, Guido Giannettini e tanti altri che solo a pronunciarne il nome riaprono antiche ferite. Se la storia è nota e non può essere riscritta (la strage di piazza Fontana non ha ancora trovato un colpevole) “Romanzo di una strage” ha il pregio di ricordarla in maniera corretta. Giordana ci mette dentro tutto ed inevitabilmente finisce per semplificare fatti e personaggi. A parte Calabresi, a cui il film decide di affidare il ruolo di eroe borghese, capace di attraversare la storia con un humanitas che deve molto all’asciuttezza interpretativa di Valerio Mastandrea, ormai pronto per il grande cinema, e parzialmente Pinelli, vittima sacrificale capace di riassumere con la sua tragica morte il senso di ingiustizia che pervade le cose, il film va colto nella sua propensione a ricostruire il quadro generale e nel riuscire a mostrarlo in diretta, riproducendo dinamiche e connessioni che funzionano nel loro complesso ma sono carenti, per mancanza di tempo, quando devono rappresentare se stesse.

Alla pari di quello che avevamo ammirato ne "La Talpa" anche quello di Giordana è un mondo chiuso nelle proprie ossessioni (il film è quasi esclusivamente girato in interni), imprigionato da logiche comprensibili sono a coloro che le hanno sposate (la moglie di Calabresi e quella di Pinelli per esempio ne sono totalmente escluse)e che ad esse hanno sacrificato la vita.

Caratterizzato da una fotografia plumbea, ridotto in ambienti poco accoglienti, scarsamente illuminato "Romanzo di una strage" aggiunge poco a chi quegli anni l'ha vissuti, mentre può aiutare le generazioni più giovani a comprendere il presente di cui questa storia è il frutto. Il titolo fa riferimento ad un articolo di Pier Paolo Pasolini che nel denunciare i mandanti delle stragi definisce le loro versioni dei fatti come un "romanzo". A distanza di tempo ed alla luce di questo film aveva ragione.

lunedì 26 marzo 2012

10 regole per fare innamorare


Negli anni 80 ci fu addirittura una canzone, "Teorema" di Marco Ferradini che cristallizzava la formula per fare innamorare una donna. In precedenza, parliamo dell'epoca dei lumi, cioè nel tardo settecento si credette addirittura di poter adottare i parametri della ragione per imbrigliare sentimenti ed emotività. Calcoli matematici, schemi psicologici, esperienze di vita vissuta, qualunque sia il modo di parlarne e nonostante gli sforzi messi in campo, l'amore resta sempre sfuggente e imprevedibile. Lo sa bene Roberto (Vincenzo Salemme), quando nell'illustrare le regole che permetteranno al figlio di conquistare la ragazza dei suoi sogni, sarà costretto ad ammettere che per quel sentimento non esistono comportamenti preconfezionati ma una predisposizione inspiegabile e misteriosa. Affermazione che farebbe pensare ad un approfondimento che però il film non ricerca preferendo di gran lunga seguire l'esempio di certo cinema giovanilistico di matrice americana, che al cervello preferiscono un marketing visivo di stampo catodico e pubblicitario, con un'attenzione concentrata quasi esclusivamente sull'estetica di personaggi giovani carini e disoccupati alla costante ricerca dell'empatia dello spettatore. Così, mentre il film mette in fila una dopo l'altro i tentativi per fare innamorare la ragazza, rigorosamente preceduti dalla lezione teorica che il professore trasforma in simposi goliardici e mangerecci, davanti ai nostri occhi si delinea lo spaccato di una gioventù attenta a non trascurare ogni dettaglio del proprio look, ma sotto tutela dal punto di vista del discernimento. Una carenza che paradossalmente la sceneggiatura evidenzia quando decide di aiutarli con le ovvietà suggerite dal personaggio interpretato da Salemme, tanto simpatico quanto scontato nel proporre slogan ("conosci cosa le piace e fai finta che piaccia anche a te") che un ragazzo normale dovrebbe conoscere a memoria e che invece guardando le facce degli interessati risultano pillole di saggezza infinita. Un'improbabilità che non trova riscatto né sul piano del divertimento - l'attore napoletano può contare su finestre di comicità da gag televisiva come quella che lo vede impegnato nel botta e risposta con l'inquilino dello stabile a cui ha citofonato per errore - né su quello dell'intrattenimento, giocato interamente sulla goffagine e sull'ingenuità del protagonista che, nel tentativo di raggiugere il suo scopo, rimarrà coinvolto in situazioni a metà strada tra il ridicolo e l'inverosimile, con fughe, capitomboli e salvataggi all'ultimo minuto più adatte a una slapstick comedy che al registro sofisticato a cui comunque il prodotto aspira.

Al suo terzo lungometraggio Cristiano Bortone mette a disposizione la sua ecletticità di documentarista, produttore ("Samir", 2004) e uomo di televisione per un film che strizza l'occhio al box office in maniera garbata, promuovendo volti nuovi o quasi come quello di Guglielmo Scilla, disinvolto ma compiaciuto nel ruolo del giovane innamorato ed Enrica Pintore, penalizzata da un personaggio monocorde, in quello dell'oggetto del desiderio. Peccato che lo faccia con poca fantasia nella scrittura (la sceneggiatura è frutto di una collaborazione con Fausto Brizzi e Pulsatilla) ed in maniera discontinua in termini di regia, troppo indulgente con i due protagonisti ed un pò meno con chi invece, parliamo per esempio di Fatima Trotta nel ruolo di Mary, la ragazza che insieme ad altri due amici condivide l'appartamento di Marco, avrebbe le qualità per primeggiare. Sul piano produttivo è interessante notare il realismo di una casa di produzione come la Lucky Red di Andrea Occhipinti che in tempi di magra si adatta alle circostanze abbassando le pretese e lavorando su un prodotto che mira agli incassi senza alcuna reticenza. Un segno dei tempi.

lunedì 19 marzo 2012

Magnifica presenza

L'avevamo lasciato con quella scena magnifica, in cui in un misto di nostalgia e felicità i personaggi della storia si accomiatavano dal pubblico sulle note musicali di un ballo che, nell'armonia dei suoi gesti, ricomponeva in maniera ideale la frattura tra passato e presente. Un finale, quello di "Mine vaganti"(2011), che sintetizzava felicemente la summa poetica del regista italo-turco e ricuciva lo strappo seguito all'uscita di "Un giorno perfetto" (2008) accolto con ingiustificata acrimonia dagli addetti ai lavori e con scarso interesse da parte del pubblico. Una battuta d'arresto ripagata da un successo inaspettato e foriero di nuove prospettive, anche straniere, per una carriera che si pensava incanalata all'interno dei confini nazionali.

Deve essere stata questa consapevolezza unita alla ritrovata autostima a ispirare "Magnifica presenza", una storia che se da una parte ripropone attraverso la centralità di un personaggio, Pietro (Elio Germano) diviso tra aspirazioni mondane e vicissitudini amorose, la dicotomia esistente tra realtà e rappresentazione, dall'altra sembra tirare le fila di un'evoluzione artistica arrivata all'apice delle sue possibilità, e per questo bisognosa di una riflessione che la prenda in considerazione nella sua totalità. Una lezione di cinema sotto mentite spoglie e anche un compendio cinematografico che sull'esempio di capolavori come "Otto e mezzo", e in minor misura "Stardust memories", fa dialogare due facce della stessa medaglia: l'arte con le sue regole, anche crudeli se pensiamo al monologo egocentrico e spietato di Livia Morosini, diva teatrale scomparsa dalle scene in maniera misteriosa, e la vita, quella personale e privata dell'autore, con cui il film si identifica quando nell'annullare le barriere tra la dimensione metafisica dei fantasmi che occupano la casa dove Pietro si è appena trasferito, e quella terrena vissuta dal loro interlocutore (a un certo punto Pietro e i suoi visitatori si ritroveranno a condividere anche la cena), porta a compimento il desiderio autobiografico di riportare in vita amici e parenti prematuramente scomparsi.
Il film di una raggiunta maturità, si potrebbe definire così "Magnifica Presenza" che, alla pari di "Habemus Papam" di Nanni Moretti, permette a chi lo ha realizzato di rivestire i temi di sempre con una legittimità culturale che in entrambi i casi, ed in maniera diversa, si serve del teatro e dei discorsi che gli appartengono per realizzare questa impresa. Ma il problema in questo caso non sta tanto nel progetto quanto nella realizzazione che non riesce a tenere in piedi in maniera organica la quantità di spunti, personaggi e situazioni poste in essere. Così, seguendo i passi del protagonista che ad un certo punto perde le sue caratteristiche per diventare il traghettatore capace di far compiere al film quegli spostamenti, anche fisici, in grado di soddisfarne l' intento omnicomprensivo, la storia si sfilaccia progressivamente introducendo personaggi come quello delle due bariste svampite e colorate - il verso ad Almodovar presente in altre parti è qui chiaramente manifesto - che fanno il filo a Pietro, del vicino di casa invaghito o forse no del nuovo inquilino, oppure di un travestito che aiuta Pietro a ritrovare Livia, figura attorno alla quale ruota il mistero e anche la felicità dei fantomatici visitatori, destinati a eclissarsi senza lasciare alcuna traccia.
E anche navigando a vista, concentrandosi esclusivamente sul filone principale del film, ovvero il rapporto tra l'aspirante attore (dettaglio risolto con due provini che fanno sorridere per la loro improbabilità) e gli ansiosi spettri, non si può non notare la preponderanza dell'effetto glamour e caricaturale rispetto a quello introspettivo (facendo parte di una compagnia teatrale i nostri si vestono e posano come se fossero ancora sulle scene) abbozzato e insufficiente per giustificare l'utilizzo di un cast la cui importanza (Margherita Buy, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini e Andrea Bosca) avrebbe meritato sorte migliore. Il risultato è invece una ronda in cui si fa fatica a entrare e di cui si resta ammirati per maestria di impaginazione, ricchezza di costumi eterogeneità attoriale, ma che fa rimpiangere il coinvolgimento immediato e passionale a cui Ozpetek ci aveva fin qui abituato.
 
(pubblicato su ondacinema.it)

martedì 13 marzo 2012

La -bas -Educazione criminale



Le mani sulla città. Sono quelle della camorra e di tutti quelli che come lei cercano di strappare un angolo di paradiso ad una terra condannata dall'egoismo degli uomini. Con ogni mezzo ed a ogni costo. Tra di loro si ritrova quasi per caso Yussouf, giovane africano giunto a Castel Volturno con il sogno di chi l'ha già preceduto in quel viaggio. La speranza di lavoro ed una vita dignitosa si infrangono con le difficoltà di una vita vissuta ai margini. Così quando il giovane chiede aiuto allo zio diventato nel frattempo un boss della locale comunità africana si ritrova immediatamente coinvolto in un traffico di droga a cui contribuisce smerciando la letale sostanza. Un'attività portata avanti con successo e determinazione, in cui entrano in gioco anche l'amore e l'amicizia, e che durerà fino a quando gli interessi dei nuovi arrivati non interferiranno con quelli delle potenti cosche presenti sul territorio. Da quel momento nessuno sarà più al sicuro.

Scavalcando la cronaca a cui il film comunque si consegna nel finale, facendo confluire la vicenda di Yussouf nella strage di Castel Volturno del 2008 in cui persero la vita sei immigrati africani uccisi da una gang di camorristi,"Là-Bas" riscrive la parabola del figliol prodigo scandendola in altrettante tappe, ciascuna delle quali, la fratellanza accolta e poi rifiutata nei confronti di chi gli ha dato asilo, la progressiva discesa agli inferi lavorando per conto dello zio, la presa di coscienza ed il ritorno sui propri passi, concorre a delineare un gangster movie anomalo per l'assoluta mancanza di enfasi con cui è trattata la violenza. Collocato in un contesto fortemente caratterizzato dalla scelta di girare nei luoghi dove i fatti sono realmente accaduti e per la rinuncia al doppiaggio dell'idioma parlato all'interno della comunità africana ( principalmente il francese ma anche l'inglese, entrambi sottotitolati)ed immerso in un atmosfera di alienazione a cui non è estranea la decisione di diradare il paesaggio geografico così come quello riconducibile alla letteratura malavitosa, trasposta in maniera concreta nelle facce da sgherro dei camorristi senza nome che si interfacciano con lo zio Moses, il mondo di "Là-Bas" è lo specchio di una società che preferisce non guardare, nel film la presenza dello stato e delle sue istituzioni sono una chimera destinata a rimanere tale, rinunciando a difendere i più deboli per evitare di fare i conti con le responsabilità che ne derivano.

Evitando la retorica sull'immigrazione, raccontata dall'interno con un personaggio che ad un certo momento si trasforma consapevolmente (e per comodità) da vittima a carnefice, e la cui redenzione avviene solamente quando si troverà con le spalle al muro, l'esordiente Guido Lombardi traccia un quadro della situazione a dir poco sconfortante. Mettendo a confronto due realtà criminali, apparentemente diverse eppure uguali nel perseguimento delle rispettive finalità - la coercizione dello zio Moses nei confronti del nipote non differisce da quella ben nota messa in atto dalla controparte - il regista sembra dirci che il male appartiene agli esseri umani senza alcuna distinzione, e non risparmia neanche chi sceglie apertamente di non parteciparvi, se è vero che le vittime della strage erano persone assolutamente innocenti. Girato senza la frenesia che contraddistingue chi lavora sul campo e costruito su un insieme di immagini che nell'alternanza tra primi piani, e campi lunghi (rari ma significativi) riesce ad essere rappresentazione oggettiva ed insieme emozionale, il film di Guido Lombardi autore anche della sceneggiatura ha vinto il premio quale migliore opera prima all'ultimo festival di Venezia a cui ha partecipato nella sezione dedicata alla Settimana internazionale della critica. Una vittoria meritata.
(pubblicata su ondacinema.it)

martedì 6 marzo 2012

L'arrivo di Wang




Da "l'ultimo terrestre" a "l'arrivo di Wang" il cinema italiano fa le prove generali per riappropriarsi di un genere che i produttori sembravano aver cancellato dai loro programmi. Ed invece complice il festival veneziano, dove entrambi sono stati presentati  la fantascienza made in Italy fa la sua réentre proponendo a pochi mesi di distanza due opere che seppur con diversità di stile ed anche di possibilità realizzative tornano a parlare il linguaggio della fantasia proponendo la visione di un mondo alle prese con una possibile invasione aliena. Insomma un genere nel genere se non fosse che i Manetti Bros ci mettono del loro per inventarsi una storia che pur rientrando di diritto nella categoria riesce allo stesso tempo a mantenere intatta la loro identità.  Se infatti la trama si sviluppa attorno ad un misterioso interrogatorio in cui sono coinvolti una giovane sinologa ed un losco agente dei servizi segreti la sorpresa consiste nel fatto che Wong, l'alieno giunto sulla terra con propositi che l'interrogatorio deve svelare si esprime utilizzando il cinese mandarino. Una situazione paradigmatica quella del confronto tra abitanti di diversi pianeti che i Manetti trasformano in un balletto drammatico ed al tempo stesso grottesco, in cui tanto la composizione dei caratteri, anomala per il modo in cui si comportano - l'agente è costantemente sopra le righe, la traduttrice sull'orlo di una crisi di nervi, l'alieno impacciato ed a volte persino buffo - quanto il contesto in cui si svolge - la drammaticità della situazione è continuamente sabotata  dalla presenza sui generis  della lingua cinese - concorrono a decostruire  l'incontro del terzo tipo, avvalendosi di continui cambi di direzione, affidati ai punti di vista dei personaggi, colpevolista quello di Curti (un cattivissimo Ennio Fantastichini) convinto della cattiva fede del visitatore, assolutorio quello di Gaia (la camaleontica Gaia Cuttica , attrice feticcio dei registi) schierata dalla parte del più debole più per i metodi inquisitori di chi lo interroga che per propria convinzione. E senza far pesare troppo suggestioni sociologiche e riferimenti alla contemporaneità la vicenda riesce a far passare la metafora di un mondo dominato dal pregiudizio e da una conoscenza che si ferma sulla superficie delle cose. A perdere sarà sempre la razza umana, indipendentemente da schieramenti e ideologie.


Girato con un economia di mezzi che i due registi trasformano sempre in plus valore "L'arrivo di Wang" è un film ricco di linguaggi cinematografici, inventati di volta in volta per fornire il giusto contraltare alla performance dei personaggi. Concentrato in un unico spazio, il bunker asettico ed opprimente dove si svolge l'interrogatorio, l'occhio dei Manetti Bros si concentra sulle facce degli attori che si diverte a deformare con lenti fuori fuoco, grand'angoli  e sovrapposizioni di luce  per restituirne la dimensione di follia e di pericolo in cui sono precipitati i personaggi da loro interpretati. Ma il film ha nel contempo una costituzione materica e diremmo carnale quando, lavorando sui corpi c'è li mostra sottoposti ad ogni genere di afflizione: legati, colpiti, sudati e sanguinanti ma comunque sostenuti da un agonismo  che gli impedisce di arrendersi agli ostacoli che il destino gli mette sulla strada. Ed anche il comparto tecnico rappresentato da una squadra di giovanissimi, la Palantir Digital Media, contribuisce a questa consistenza creando un personaggio virtuale, Wang appunto, credibile per la varietà di espressioni ed una fisicità evidenziata dalla luce neutra che i registi hanno espressamente voluto per illuminare la loro creatura. Una scommessa vita quella dei Manetti, con i festival che fanno a gara per accaparrarsi il loro film e con il prossimo giunto al termine della lavorazione. Come dire che a loro la crisi gli fa un baffo.