domenica 20 maggio 2012

Isole

Forse è solo un caso ma si verifica con sempre maggiore frequenza che il segno principale del cinema italiano indipendente sia legato alla frequentazione di geografie territoriali non comuni. Fuori o dentro i confini nazionali la scelta del paesaggio risulta non solo lontano dalle rotte abitualmente utilizzate – in questo senso la grande metropoli è uno dei soggetti che ha subito la maggiore contrazione – ma è anche elemento preminente per sviluppare la psicologia delle figure che lo attraversano. Come capita appunto nell’ultimo film di Stefano Chiantini ambientato nelle Tremiti rese nella loro morfologia aspra ed essenziale per rappresentare la condizione di tre esseri umani, Enzo un sacerdote menomato da recente malattia, Ivan straniero senza permesso di soggiorno ed alla ricerca di un lavoro, e Martina una ragazza senza voce e senza amici, destinati a condividere le rispettive solitudini. Ed infatti è dalle strade del villaggio, strette ed irregolari oppure nei tratti in cui la vista si libera faticosamente alle distese marine, per non dire della rarefazione dell’elemento umano quasi assente, che riusciamo a tracciare il diagramma emotivo di uno stato dell’anima per il resto imprigionata dentro un silenzio ostinato e doloroso. Oltre a questo la chiara indicazione di una contemporaneità in crisi che il film esplicita attraverso le menomazioni fisiche di cui sono portatori i protagonisti, tutti per diversi motivi costretti a sopportare nel corpo le conseguenze di una sofferenza psicologica. Un pessimismo cupo e disperato che Chiantini ci trasmette ribaltando l’immagine di alterità solitamente connessa al territorio insulare e qui utilizzata come metafora di una prigione esistenziale in cui intolleranza ed incomprensione diventano il metro delle cose e degli uomini, la fonte principale di una solitudine senza scampo. Il regista in questo senso non fa sconti anche quando si tratta di parlare d’amore attraverso l’intesa tra Ivan e Martina, la cui nascente relazione viene prima osteggiata e poi impedita anche da chi avrebbe gli strumenti per capirne la giustezza.

Lontano dal cinema d’impegno civile così come da quello di puro intrattenimento “Isole” si colloca nella terra di mezzo dove trovano asilo le opere che non possono contare su un sostegno divistico e/o distributivo. Apprezzabile per la maniera con cui riesce a far fruttare le poche risorse disponibili, il film di Chiantini rimane però vittima di se stesso quando nel tentativo di presentare come nuove situazioni e personaggi ampiamente risaputi si produce in una rarefazione di parole e spiegazioni che le immagini da sole non riescono a compensare. Ne deriva un impoverimento di significati che lascia insoddisfatti e che delega al non detto, e di questa tendenza risulta esemplare l’ultima sequenza che alla maniera di “Lost in Traslation” (2003) si conclude con il mistero della frase pronunciata da Ivan all’orecchio di Martina, la parte più importante del film, quella che dovrebbe dare sostanza ad una storia che invece rimane sospesa in una neutralità senza sfogo. Interpretato da un gruppo d’attori perfettamente calati nella parte “Isole” permette ad Asia Argento di recitare lontano dai suoi rumorosi clichè ed a favore di un personaggio(Martina)che rinunciando a parlare si esprime con il linguaggio del corpo e dello sguardo. Una prova un pò monocorde ma incoraggiante, soprattutto se inquadrata in prospettiva di un rinnovamento delle sue prerogative attoriali. Presentato all’ultimo TFF “Isole” è uscito nelle sale italiane con diffusione limitata, e sulla rete dove è possibile vederlo gratuitamente. 
(pubblicata su ondacinema.it)



lunedì 14 maggio 2012

Il richiamo



Anime destinate ad incontrarsi sulla base di un reciproco dolore. Isole di un universo sconosciuto eppure vicinissimo entrano in collisione in maniera casuale ma inevitabile. L'impatto sarà rumoroso e cambierà lo stato delle cose. Sicuramente darà vita a nuove possibilità. È con la consapevolezza di un nuovo inizio che si conclude l'ultimo film di Stefano Pasetto, regista da un po' di tempo sulla breccia ma per motivi legati alle logiche della distribuzione italiana ancora al palo con il suo secondo film, pronto già da un anno e solo ora in uscita nonostante il plauso ottenuto oltre confine nei festival dov'è stato presentato. A questa constatazione di rinnovamento che abbraccia il significato ultimo della storia appena raccontata se ne aggiunge un altro che riguarda da vicino i personaggi di Lucia e Lea, le due donne che in modo meno eclatante ma sicuramente molto simile a quella di "Thelma e Louise" (1999) danno vita ad una ribellione nei confronti della loro esistenza incompleta, e delle persone che ne fanno parte, ad incominciare dagli uomini, incapaci di capire le loro inquietudini e qui esclusi da una complicità che dopo l'amplesso consumato più come reazione ad un malessere reciproco che ad un attrazione sessuale, e successivamente nel viaggio attraverso la Patagonia argentina, si trasforma forse in qualcosa di più.

Ma dicevamo dei personaggi ancora una volta come già accadeva in "Tartarughe sul dorso"(2005) colti in un mutamento che gli farà cambiare pelle. E se nel film d'esordio le figure centrali interpretate da Fabio Rongione e Barbara Bobulova restavano in qualche modo in sospeso, bloccate nel loro percorso dalle conseguenze del gesto violento - lui finiva in prigione per aver voluto vendicare con il sangue le molestie di cui lei è stata vittima - che gli aveva permesso di prendere atto del nuovo corso, nel caso de "Il richiamo" questo tragitto si compie non solo attraverso variazioni che segnano in senso fisico il corpo, risanandolo, ma che arrivano fino in fondo attraverso uno strappo interiore e personale, quello che porterà Lucia e Lea a separarsi una volta per tutte dal fardello (per Lucia la mancata gravidanza per Lea l'assenza della figura paterna) che ne condiziona in negativo l'esistenza.
Ultimo arrivato in termini distributivi ma in realtà apripista (il film è stato prodotto nel 2011) di un cinema italiano che prova a liberarsi dal provincialismo a cominciare dai luoghi in cui viene girato - era già successo con i film di Volo, Sorrentino e Faenza ambientati in america ma anche nella rarefazione del paesaggio urbano dell'Italia filmata da Marina Spada nella sua ultima opera - "Il richiamo" ha il suo punto di forza nella capacità di far crescere i personaggi senza la fretta che contraddistingue molto cinema contemporaneo, nel modo con cui utilizza l'ambiente, mettendolo in corrispondenza con gli stati d'animo dei protagonisti, Buenos Aires pulsante ed affollata quando nella prima parte deve fare da specchio al crescendo interiore che mette in discussione certezze che non sono più tali, la Patagonia spoglia e scarsamente frequentata a rappresentare una presa di coscienza netta ed inappuntabile in quella finale.

Ma queste qualità, a cui si aggiunge la scelta di filmare con una semplicità che certamente si addice alla volontà di riprodurre una quotidianità essenziale e priva di orpelli, sono costrette a fare i conti con una certa prevedibilità nella rappresentazione dell'universo femminile, per molti versi uguale nella suo percorso di guarigione esistenziale a quello di certe produzioni nostrane - "Le acrobate" di Silvio Soldini (1997) potrebbe essere un modello - e che trova nella performance distante ed implosa di Sandra Ceccarelli un prototipo riuscito ma fortemente praticato, ed in quella di Francesca Inaudi una proposizione sin troppo caricata anche per un personaggio come quello di Lea, agli antipodi per leggerezza ed esuberanza rispetto a quello introverso e malinconico di Lucia. E poi con una certa difficoltà nella chiusura, più volte rimandata con inserti come quella dall'anziana signora a cui Sandra decide di dare lezioni di pianoforte che non aggiunge nulla ma sembra messo apposta dal regista per piazzare qualche frase ad effetto sulle verità dell'esistenza. Ancora sul versante distributivo si registra la penalizzazione di un doppiaggio che per ragioni di opportunità commerciale ci ha privato della versione originale, girata in lingua spagnola. Davvero un peccato ma anche un segno dei nostri tempi. 
(pubblicate su ondacinema.it)