domenica 22 aprile 2012
Portare un libro sullo schermo, tradurre per immagini la parola e soprattutto i pensieri di uno scrittore è un compito difficile. Chi ci ha provato, tranne rare eccezioni, ricordiamo lo "Shining" di Kubrick, peraltro disconosciuto dall'autore del testo, ha dovuto subire le critiche di coloro che avendo letto il libro si sono sentiti a vario modo traditi per una versione troppo ossequiosa o all'opposto fin troppo sbarazzina. Nel caso de "Il primo uomo" a questi motivi si aggiunge il fatto che a firmare l'opera letteraria è Albert Camus, artista a tuttotondo (scrittore, drammaturgo, polemista) ma prima ancora intellettuale militante, impegnato in prima persona nelle faccende che riguardarono la sua terra natale, l'Algeria, coinvolta verso la metà del novecento in una guerra sanguinosa e fratricida volta ad ottenere l'indipendenza dalla Francia colonialista di quel periodo.
Ed è proprio in quest'ottica che Jacques Cormery, alter ego dello scrittore, accetta l'invito dell'università di Algeri, dove il suo intervento a favore di una riconosciuta autonomia culturale del paese prima ancora che geopolitica viene sonoramente disapprovata da chi ne vorrebbe mantenere inalterato lo statuto. Sulla scia di quell' evento e con i segni di un conflitto sempre più evidente Cormery inizia un viaggio della memoria che lo riporterà ai luoghi di un infanzia povera ma vitale, rivisitata nei ricordi dello scrittore ed attraverso i colloqui con le persone che vi presero parte, in primo luogo l'anziana madre amorevole ma distante ed il maestro che per primo ne capì l'eccezionalità aiutandolo ad ottenere la borsa di studio che darà il via alla sua eccezionale carriera, e poi il compagno di scuola che gli chiede di salvare il proprio figlio condannato a morte con l'accusa di aver favorito l'attentato in cui sono morti numerosi civili.
Caratterizzato da una lunga gestazione e condizionato da problemi produttivi che ne hanno messo in forse il regolare svolgimento "Il primo uomo" è innanzitutto il ritorno al cinema di un regista importante. Per far questo Amelio sceglie un opera a lui congeniale non solo per essere il frutto di una personalità costretta come lui ha conquistarsi uno spazio, artistico e sociale, inizialmente negato da umili origini ed indelebilmente segnato dall'assenza della figura paterna (il padre di Camus morì giovanissimo nella battaglia della Marna mentre quello di Amelio emigrò in Argentina e li rimase) ma ancor più nella coincidenza di contenuti che nel rapporto tra padri e figli e nei motivi dell'infanzia rubata trovano perfetta corrispondenza nel cinema del regista calabrese. La familiarità è però chiamata a fare i conti con un testo scritto, denso e stratificato, intessuto fino all'orlo di un panteismo che in Camus è una vera e propria religione (in assenza di quella ufficiale) humus che nutre i personaggi e le loro azioni. Un richiamo costante di cui il film di Amelio non riesce a farsi carico nella costruzione psicologica dei protagonisti e nella dialettica con l'ambiente in cui questi si muovono, racchiuso da inquadrature prive di orizzonte (forse per sottolineare la dimensione interiore del racconto oppure per le sopraggiunte difficoltà finanziarie) ed interamente risolta in chiave nostalgica da una fotografia pastosa ed intessuta di tonalità dorate. Un vuoto che Amelio sostituisce forzando la mano in chiave ideologica e politica, facendo derivare l'incipit del film, ovvero il ritorno in patria e la successiva "indagine" non tanto dalla necessità di fare luce sulla personalità di un padre mai conosciuto ma piuttosto, ed in film su questa direzione baserà soprattutto la seconda parte con il tentativo di Jacques di liberare il figlio dell'amico ingiustamente incolpato e poi nell'invito a scongiurare una guerra fratricida divulgato con un intervento radiofonico, sull' attitudine civile e militante del protagonista. "Il primo uomo" di Amelio si carica allora di significati che rimandano alla nostra contemporaneità, dal terrorismo allo scontro di civiltà, che però dovendo condividere un terreno che non gli appartiene, perchè la storia rimane comunque la ricostruzione di un ritorno alle origini operato attraverso le strutture del romanzo di formazione, finiscono per non avere la forza e la forma con cui invece questi temi dovrebbero essere denunciati.
Ed alla fine, pur riconoscendo al regista una compostezza della messinscena - dall'understatement recitativo alla sobrietà compositiva delle inquadrature - che rende giustizia in qualche modo al carattere schivo ed essenziale della materia, rimane forte la sensazione di un lavoro irrisolto e poco appassionante. Distribuito dalla 01 in un numero di sale da film di seconda fascia "Il primo uomo" ha comunque trovato i suoi estimatori vincendo il premio della giuria all'ultimo festival di Toronto.
(pubblicato su ondacinema.it)
martedì 17 aprile 2012
Posti in piedi in paradiso
Ogni volta che un film di Verdone arriva nelle sale sembra quasi impossibile evitare paragoni con la tradizione della commedia all'italiana e di conseguenza gli amarcord pieni di rimpianti per un stagione che appare ancora più irripetibile se confrontata con il panorama contemporaneo del nostro cinema. Quello che in molti casi appare un esercizio di retorica perché certamente i vari Brizzi, Miniero e Genovese con i loro film non hanno nessuna intenzione di prendere in eredità la tradizione di quel cinema, nel caso di Verdone diventa invece un accostamento appropriato. A dirlo non è solo il lavoro operato sul corpo, che attraverso infinite variazioni dello stesso tipo umano ne hanno fatto una maschera capace di contenere pregi e difetti dei nostri compatrioti ma anche la funzione assolta da un cinema chiamato a fustigare i costumi della società contemporanea. Certo si potrebbe discutere sulla competenza e la qualità con cui l'autore romano ha lavorato all' interno del genere ma di certo l'ha fatto nella prospettiva e sull'esempio della tradizione più nobile. Per questo motivo dopo il deludente "Io, loro e Lara", tentativo di rilanciare la versione più impegnata del suo cinema approfondendo in maniera superficiale il rapporto tra il mondo laico e quello religioso, era necessaria una verifica per capire se le possibilità dell'artista ed il suo sguardo sulle cose non si fossero definitivamente appannati. Ed invece per la reentrè Verdone alza la posta con una storia collettiva, - di buon auspicio il precedente fortunato e riuscito come "Compagni di scuola" - e tre personaggi maschili interpretati da altrettanti grandi attori, oltreche all'immancabile presenza femminile - questa volta ad essere promossa è una Micaela Ramazzotti in grande ascesa - messi insieme per dare vita alla storia di una crisi, esistenziale, affettiva e soprattutto economica. Verdone prende in prestito il fallimento dei suoi personaggi per parlare dell'Italia di oggi. Ed allora si capisce che il dramma del tempo presente non potrebbe essere diverso se è vero che Ulisse, Fulvio e Domenico devono fare i conti con matrimoni andati a pezzi, alimenti da pagare ed una situazione lavorativa che non gli consente neanche di affittare un appartamento. Ed è proprio la necessità di condividerne uno che metterà le ali ad un incontro/scontro di personalità ed obiettivi, con i nostri eroi impegnati a scoprire se stessi attraverso il confronto con i difetti degli altri. Se il confronto tra gli opposti è uno degli schemi più sfruttati per far ridere lo spettatore, ed il film non manca di episodi divertenti e paradossali - su tutti un furto organizzato alla maniera dei soliti ignoti con Fulvio e Domenico che sbagliano appartamento e fanno venire uno spavento agli anziani proprietari - Verdone si serve del contraddittorio non solo per inserire le sue smargiassate ma anche per far emergere con lucida malinconia una contemporaneità in cui c'è poco da salvare ("siamo tutti miserabili" esclamerà ad un certo punto uno sconfortato Ulisse). Un pessimismo che prende in prestito le cronache dei giornali, con ninfette che fanno girare la testa ad uomini maturi, attrici disposte a vendersi per un provino con il regista di successo, giovanissime alle prese con i ritocchi della chirurgia plastica, playboy che prendono il viagra per essere all'altezza delle aspettative, per dirci che nonostante tutto la famiglia, qualunque essa sia - nel film quella tradizionale è praticamente inesistente - rimane l'unica ancora di salvataggio per sottrarsi all'indifferernza del mondo. Pur rimanendo se stesso, per la solita tendenza a salvare il salvabile non affondando mai il colpo, ed anche per una retorica che non gli impedisce finali conciliatori come quello del film, che immortala il ritorno alla normalità con un collage di immagini celebrativo del ricongiungimento familiare, "Posti in piedi in Paradiso" ci consegna un Verdone più equilibrato, disposto a fare un passo indietro con una messinscena più accurata, attenta ad armonizzare i caratteri e gli stili di recitazione, con in più l'intuizione di un Marco Giallini in versione mattatore che nel ruolo di un cialtrone a tutto campo ricorda, lui si, i mitici mostri di Risi e Monicelli. Tra pregi e difetti, quello di Verdone pur non essendo un capolavoro è un film che ha il merito di non arrendersi all'opportunismo dominante del box office italiano.
domenica 15 aprile 2012
Ciliegine
La decisione di passare dietro la macchina da presa per un attore anagraficamente maturo è quasi sempre il frutto di due necessità: la prima assomiglia ad un riflesso spontaneo, alla naturale conseguenza di una quotidianità educata per forza di cose all'osservazione dei gesti e delle cose; la seconda invece è una specie di salto nel vuoto, un modo per rimescolare le carte alla ricerca di nuove emozioni. Per queste ragioni quello di Laura Morante, attrice nobile del cinema italiano è un debutto che non ci ha stupito. Un caso non isolato se si pensa alla prima volta di Stefania Sandrelli avvenuta non più tardi di un anno fa ed a quella già annunciata di Valeria Golino, ma reso particolare dalla scelta della neo regista di girare in Francia, a Parigi per l'appunto, e con attori di quel paese. Una decisione legata a motivi personali certamente - l'attrice è stata legata sentimentalmente ad uno dei produttori - ma anche ad un'attenzione nei suoi confronti che i film di Moretti hanno certamente contribuito a costruire.
Dalla capitale francese il film della Morante prende in prestito oltre agli scorci di un paesaggio urbano iconograficamente perfetto per ospitare la materia amorosa che presiede la storia, anche la capacità di mantenersi elegante e disinvolto indipendentemente dalle sua qualità, che in questo caso risulta condizionata in negativo dalla volontà della debuttante di non rischiare nulla sia in termini di interpretazione che di regia. Così a cominciare da Amanda, il personaggio principale, che la Morante decide di ritagliarsi ad immagine e somiglianza di quelli da lei interpretati nel corso di una carriera, che salvo rari eccezioni l'hanno vista alle prese con una femminilità complicata da un ego in perenne contrapposizione, e quasi sempre riversato sullo schermo con un inesauribile campionario di tic e di nevrosi, il film replica un modello di commedia romantica che sembra la copia di quella Alleniana, ripresa nella supremazia dei dialoghi, nella proposizione di luoghi e situazioni - con i personaggi impegnati in interminabili discussioni ed inconsapevolmente chiamati a riprodurre una mappa geografica ed ideale fatta di camminate lungo le vie della città e dei parchi, di attese davanti al cinema o di incontri nei bistrot - nel contrappunto musicale allegramente retrò, nella psicanalisi richiamata nell'essenza stessa del personaggio di Amanda, spinta nel suo comportamento compulsivo - la continua richiesta di attenzioni puntualmente disattese dai suoi partner - da una patologia che la storia stessa definisce con il termine scientifico di androfobia per cercare di definirne la paura atavica nei confronti degli uomini.
Un peccato di "gioventù" diremo noi a cui però si aggiungono quelli di una sceneggiatura basata su un incipit troppo debole, in cui la presunta omosessualità di Antoine, l'uomo di cui Amanda si innamora, non ha un riscontro oggettivo ma viene desunta dalla gentilezza di comportamenti che in realtà sono la base della civile convivenza, e di conseguenza nell'incapacità di tradurre quell'equivoco, Antoine è ovviamente etero ed innamorato della donna, con le sorprese, i colpi di scena ed il divertimento che normalmente ci si aspetterebbe da un simile intreccio. In questo modo il film scivola via senza colpi di coda, sprecando una talento come quello di Isabelle Carrè, qui nel ruolo di Florence, l'amica del cuore, con una presenza che non acquista mai spessore ma serve più che altro a fare il punto della storia, sottolineandone i passaggi più importanti con commenti e propositi che scaturiscono dalle domande che la donna rivolge al marito psicologo, incaricato per interposta persona di aiutare Amanda a districarsi dalle trappole mentali e affettive che lei stessa si costruisce. Eppure nonostante queste mancanze "Ciliegine" riesce ad essere per discrezione ed eleganza un prodotto anomalo nel panorama del nostro cinema, ed e forse questa diversità, che concorre a farlo sembrare meglio di quello che effettivamente è.
(pubblicata su ondacinema.it)
Un peccato di "gioventù" diremo noi a cui però si aggiungono quelli di una sceneggiatura basata su un incipit troppo debole, in cui la presunta omosessualità di Antoine, l'uomo di cui Amanda si innamora, non ha un riscontro oggettivo ma viene desunta dalla gentilezza di comportamenti che in realtà sono la base della civile convivenza, e di conseguenza nell'incapacità di tradurre quell'equivoco, Antoine è ovviamente etero ed innamorato della donna, con le sorprese, i colpi di scena ed il divertimento che normalmente ci si aspetterebbe da un simile intreccio. In questo modo il film scivola via senza colpi di coda, sprecando una talento come quello di Isabelle Carrè, qui nel ruolo di Florence, l'amica del cuore, con una presenza che non acquista mai spessore ma serve più che altro a fare il punto della storia, sottolineandone i passaggi più importanti con commenti e propositi che scaturiscono dalle domande che la donna rivolge al marito psicologo, incaricato per interposta persona di aiutare Amanda a districarsi dalle trappole mentali e affettive che lei stessa si costruisce. Eppure nonostante queste mancanze "Ciliegine" riesce ad essere per discrezione ed eleganza un prodotto anomalo nel panorama del nostro cinema, ed e forse questa diversità, che concorre a farlo sembrare meglio di quello che effettivamente è.
mercoledì 11 aprile 2012
Good as You
L'intento era sicuramente quello di scherzare e di divertirsi. Lo si capisce dai fotogrammi dei titoli di testa, con il gioco linguistico che prende in prestito le lettere della parola gay per ottenere il nome del film, "Good As You" appunto. E poi ancora sempre in quel contesto nella scelta di presentarsi con dei disegni animati che nei colori vivaci e nella forte stilizzazione ricordano da vicino quelli delle commedie di Rock Hudson e Doris Day, un riferimento a cui questo prodotto, almeno nella vivacità dei suoi personaggi, non si sottrae. Caratteristiche quella della trasformazione e dell'eccesso visivo che la pellicola mantiene costantemente a regime lavorando contemporaneamente lungo due direzioni: la prima, quella più evidente, si preoccupa di costruire un atmosfera stravagante ed eccezionale attraverso associazioni di colore effettuate per contrasto, oppure nella completa predominanza di una tonalità (l'azzurro ad esempio è quella dominante di molte sequenze) ed ancora nella presenza di una fotografia che a secondo dei casi alterna i chiaroscuri alla luce neutra; la seconda, quella che dovrebbe dare sostanza al film, si organizza per rendere precarie le certezze che la sceneggiatura costruisce attraverso le dichiarazioni di intenti di personaggi, almeno a parole intenzionati a perseguire una certa stabilità affettiva.
Nel far questo il film utilizza una simmetria piuttosto schematica che prevede all'interno delle varie coppie dinamiche relazionali pressoche identiche, con uno dei componenti fedele a quel legame e l'altro alla costante ricerca di alternative che ne soddisfino la voglia di trasgressione. Un apertura narrativa che regala alla storia la possibilità di rinnovarsi attraverso il continuo interfacciarsi che i protagonisti, con il loro stile di vita movimentato ed inquieto, riescono ogni volta a ricreare. Il valzer delle coppie mette in mostra così una sessualità priva di sensi di colpa, sdoganata da retaggi omofobici e libera di esprimersi in tutte le sue sfumature. Un trionfo di fantasia e vitalismo, di gioia e di dolore che prevede una sola condizione, quella di essere gay. Ed è proprio sulla completa esclusione del mondo etero, assente, oppure cancellato quando fa capolino attraverso i dubbi del personaggio interpretato da Daniela Virgilio, bisessuale irrisolta anche nel tentativo di lasciarsi alle spalle un passato lesbo fidanzandosi a sua insaputa con un omosessuale pentito, che il film punta - "la prima gay comedy italiana" è la definizione che campeggia sulla locandina del film - per costruirsi il suo plus valore.
Una peculiarità destinata a rimanere tale solamente sul piano formale, ma sconfessata da una serie di difetti che finiscono per omologare "Good As You" alle produzioni di più facile consumo, quelle in cui lo sviluppo psicologico dei caratteri si avvicina allo zero, dove l'intreccio della storia si snoda in maniera scontata quand'anche poco approfondita, ma soprattutto dove il coinvolgimento dello spettatore è stimolato con battute da avanspettacolo ("Che voi siate maledetti, che i vostri figli abbiano il pisello piccolo" è quella pronunciata da uno dei personaggi per esprimere la propria frustrazione) e siparietti che riducono il mondo gay ad una pantomima così stereotipata e superficiale da annullare anche la componente ludica che invece il film vorrebbe riflettere. Mariano Lamberti regista dal pedigree autoriale - i suoi precedenti lavori da "Non con una bang" del 1998 a "Napoli 24" opera collettiva che vuole documentare il degrado della capitale partenopea ci parlano di un cinema impegnativo ed impegnato - scrive e dirigere in funzione di un'immediatezza che trova i suoi limiti nel continuo fluttuare dei registri - dal melò alla Ozpetek alla commedia sul modello dei cinepanettoni - e dello stile, con la voce fuori campo, invadente nella prima parte e poi di colpo assente, ed i balletti molto kitsch, inseriti qua e là con la logica dell'effetto a breve termine. In questo modo il film privo di un adeguato supporto, e con una recitazione forzatamente sopra le righe, non riesce a lasciare il segno, consegnandosi ad uno sconfortante anonimato.
(pubblicata su ondacinema.it) venerdì 6 aprile 2012
ACAB
L'inizio è una lunga sequenza dove con un montaggio incrociato ci vengono presentati i protagonisti della storia. Cobra, Mazinga, Negro sono i nomi di battaglia dei tre poliziotti del reparto celere riassunti in quelle scene rubate ad un frammento delle loro rispettive esistenze. Il primo insegue e malmena il pirata della strada che stava fuggendo dopo averlo investito; il secondo blocca uno spacciatore mentre è a fare la spesa con la figlioletta; il terzo si ritrova in questura per riportare a casa il figlio che è stato fermato dalle forze dell'ordine. Le loro sono ancora vite senza nome, facce che pretendono rispetto senza alcun biglietto da visita; la notte a dipingergli nel volto un abisso che di lì a poco impareremo a conoscere fino in fondo. Per il momento la cosa più importante è assistere a quello che vediamo: un privato che non riesce a svestire l'uniforme.
Teso, violento, sincopato, abituato a farsi strada tra le maglie di una metropoli trasformata in un campo di battaglia, il prototipo umano al centro della storia è abituato ragionare sulle opportunità che gli assicurano la sopravvivenza, in un confronto esistenziale raramente alla pari, consumato tra le gradinate di uno stadio popolato da belve inferocite, oppure in una terra di nessuno, dove lo stato si fa vivo solamente quando c'è un conto da saldare. Il film di Stefano Sollima si sviluppa proprio da questo punto di partenza, assunto come dogma inconfutabile, in cui l'impossibilità di ritornare ad essere normali dopo l'esercizio delle proprie funzioni viene fissata nel sistematico alternarsi di scene e situazioni caratterizzate da scelte comportamentali che non distinguono tra lavoro e tempo libero. Da quel momento l'evolversi dell'intera vicenda, nella mancanza di confine tra un ordinanza di sgombero da eseguire riducendo al massimo il rischio di effetti collaterali, e la vendetta contro un gruppo di immigrati eseguito per conto terzi, finirà per rendere impossibile ogni tentativo di distinzione.
Quello che conta, al di là della strumentalizzazione in chiave politica e sociale (non a caso il senso di frustrazione nei confronti di un sistema che non tutela i cittadini è accennato, e per di più delegato a chi ormai non fa più parte del sodalizio) è un senso di appartenenza continuamente ribadito. In questa direzione è chiaro il messaggio che il Cobra impartisce al neo assegnato con fare perentorio: il collega è un fratello, il gruppo una famiglia da salvaguardare in ogni occasione, anche a costo, come capiterà negli scampoli conclusivi della vicenda, di tradire quegli interessi, dei cittadini e della nazione, poco prima legittimati dal rischio dell'incolumità personale al quale gli stessi agenti si sottopongono ogni volta che lasciano la caserma. In un quadro simile, e con la storia che gradatamente si concentra sulla pista seguita dal Cobra per catturare il colpevole del ferimento del suo comandante (Mazinga), il film ci mostra le conseguenze di un'etica che riduce le possibilità di condividere affettività d'altro tipo, con famiglie mai formate, quella del Cobra è un sorso di birra consumato in solitudine, oppure complicate dall'assenza di chi dovrebbe governarle con la propria presenza Al suo esordio sul grande schermo Sollima doveva affrontare molte sfide: innanzitutto quella di confermare nel passaggio dal piccolo al grande schermo quanto di buono era stato detto di lui a proposito della trasposizione televisiva di "Romanzo criminale" (2005). Poi, forse la cosa più importante, quella di evitare la retorica e l'ideologia che spesso accompagna la rappresentazione del potere nelle sue diverse manifestazioni. Ed infine la possibilità di realizzare un prodotto in grado di far pensare evitando di mortificare le necessità dell'intrattenimento.
A conti fatti il tabellino fa segnare il pieno dalla parte del segno più perché il film, pur ricalcando nel paradigma del poliziotto consumato dal male del suo lavoro modelli e personaggi di tanto cinema americano, così come, nella rappresentazione di una comunità tribù, riconosciuta nella condivisione degli spazi - lo schieramento dell'assetto antisommossa, l'abitacolo del furgone che ogni volta li riporta sul luogo del delitto, gli spogliatoi del posto di lavoro - e dei rituali - la partita di rugby, la birra con gli amici, l'iniziazione dei nuovi arrivati - gli esempi forniti da alcuni campioni del genere come "Tropa de elite" (2007) e "Ha Shoter", premio speciale della giuria all'ultimo festival di Locarno, "ACAB" riesce a crearsi un segno distintivo. Non solo nel referto di un malessere che nel ritratto di un istituzione costretta a creare dal di dentro le motivazioni per tirare avanti, riesce a parlare di una crisi spirituale e sociale che a raggiunto livelli allarmanti, ma anche nella capacità di raccontare utilizzando una dialettica che, anteponendo la fluidità della cinepresa alla densità delle interpretazioni, riesce a restituire l'agonismo tormentato dei suoi protagonisti.
A suo agio tanto nelle inquadrature d'insieme, quando la telecamera allarga il suo sguardo al mondo circostante che in quelle ravvicinate, dove l'indagine si sofferma su un battito di ciglia, Sollima si avvale di una fotografia dai colori lividi, desaturati quanto basta per raffreddare una materia di per sé incandescente, e di un dp che, nell'alternare lo stile modaiolo della musica da classifica a quella acida e distorta realizzata dai Mokadelic sottolinea di volta in volta la successione emotiva. Un plauso speciale lo merita però la direzione attoriale e le performance che da Favino a Giallini, passando per Domenico Diele e Filippo Nigro sono il punto di forza di un'opera che non ha paura di essere quello che è: un prodotto di genere, senza infingimenti e con molto mestiere.
(pubblicata su ondacinema.it)
Teso, violento, sincopato, abituato a farsi strada tra le maglie di una metropoli trasformata in un campo di battaglia, il prototipo umano al centro della storia è abituato ragionare sulle opportunità che gli assicurano la sopravvivenza, in un confronto esistenziale raramente alla pari, consumato tra le gradinate di uno stadio popolato da belve inferocite, oppure in una terra di nessuno, dove lo stato si fa vivo solamente quando c'è un conto da saldare. Il film di Stefano Sollima si sviluppa proprio da questo punto di partenza, assunto come dogma inconfutabile, in cui l'impossibilità di ritornare ad essere normali dopo l'esercizio delle proprie funzioni viene fissata nel sistematico alternarsi di scene e situazioni caratterizzate da scelte comportamentali che non distinguono tra lavoro e tempo libero. Da quel momento l'evolversi dell'intera vicenda, nella mancanza di confine tra un ordinanza di sgombero da eseguire riducendo al massimo il rischio di effetti collaterali, e la vendetta contro un gruppo di immigrati eseguito per conto terzi, finirà per rendere impossibile ogni tentativo di distinzione.
Quello che conta, al di là della strumentalizzazione in chiave politica e sociale (non a caso il senso di frustrazione nei confronti di un sistema che non tutela i cittadini è accennato, e per di più delegato a chi ormai non fa più parte del sodalizio) è un senso di appartenenza continuamente ribadito. In questa direzione è chiaro il messaggio che il Cobra impartisce al neo assegnato con fare perentorio: il collega è un fratello, il gruppo una famiglia da salvaguardare in ogni occasione, anche a costo, come capiterà negli scampoli conclusivi della vicenda, di tradire quegli interessi, dei cittadini e della nazione, poco prima legittimati dal rischio dell'incolumità personale al quale gli stessi agenti si sottopongono ogni volta che lasciano la caserma. In un quadro simile, e con la storia che gradatamente si concentra sulla pista seguita dal Cobra per catturare il colpevole del ferimento del suo comandante (Mazinga), il film ci mostra le conseguenze di un'etica che riduce le possibilità di condividere affettività d'altro tipo, con famiglie mai formate, quella del Cobra è un sorso di birra consumato in solitudine, oppure complicate dall'assenza di chi dovrebbe governarle con la propria presenza Al suo esordio sul grande schermo Sollima doveva affrontare molte sfide: innanzitutto quella di confermare nel passaggio dal piccolo al grande schermo quanto di buono era stato detto di lui a proposito della trasposizione televisiva di "Romanzo criminale" (2005). Poi, forse la cosa più importante, quella di evitare la retorica e l'ideologia che spesso accompagna la rappresentazione del potere nelle sue diverse manifestazioni. Ed infine la possibilità di realizzare un prodotto in grado di far pensare evitando di mortificare le necessità dell'intrattenimento.
A conti fatti il tabellino fa segnare il pieno dalla parte del segno più perché il film, pur ricalcando nel paradigma del poliziotto consumato dal male del suo lavoro modelli e personaggi di tanto cinema americano, così come, nella rappresentazione di una comunità tribù, riconosciuta nella condivisione degli spazi - lo schieramento dell'assetto antisommossa, l'abitacolo del furgone che ogni volta li riporta sul luogo del delitto, gli spogliatoi del posto di lavoro - e dei rituali - la partita di rugby, la birra con gli amici, l'iniziazione dei nuovi arrivati - gli esempi forniti da alcuni campioni del genere come "Tropa de elite" (2007) e "Ha Shoter", premio speciale della giuria all'ultimo festival di Locarno, "ACAB" riesce a crearsi un segno distintivo. Non solo nel referto di un malessere che nel ritratto di un istituzione costretta a creare dal di dentro le motivazioni per tirare avanti, riesce a parlare di una crisi spirituale e sociale che a raggiunto livelli allarmanti, ma anche nella capacità di raccontare utilizzando una dialettica che, anteponendo la fluidità della cinepresa alla densità delle interpretazioni, riesce a restituire l'agonismo tormentato dei suoi protagonisti.
A suo agio tanto nelle inquadrature d'insieme, quando la telecamera allarga il suo sguardo al mondo circostante che in quelle ravvicinate, dove l'indagine si sofferma su un battito di ciglia, Sollima si avvale di una fotografia dai colori lividi, desaturati quanto basta per raffreddare una materia di per sé incandescente, e di un dp che, nell'alternare lo stile modaiolo della musica da classifica a quella acida e distorta realizzata dai Mokadelic sottolinea di volta in volta la successione emotiva. Un plauso speciale lo merita però la direzione attoriale e le performance che da Favino a Giallini, passando per Domenico Diele e Filippo Nigro sono il punto di forza di un'opera che non ha paura di essere quello che è: un prodotto di genere, senza infingimenti e con molto mestiere.
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