mercoledì 25 luglio 2012

L'estate di Giacomo

Ci sono diversi modi di fare cinema ma tutti hanno in sè il bisogno di comunicare qualcosa, non necessariamente una storia. A volte l'obiettivo è quello di raccontare una vicenda attraverso le persone, in altri casi invece è quello di parlare di una persona. Ancora immersi nei suoni e nell'ambiente della campagna friulana ed in particolare del fiume Tagliamento dove buona parte di quello che abbiamo visto ha preso forma e poi si è sviluppato, non possiamo fare a meno di pensare che "L'estate di Giacomo" nasca dalla voglia di mettere al centro dello schermo un esistenza filmata dal vivo, senza trucchi, con la pazienza di non gli eventi, lasciando che le piccole cose, quelle che abbiamo smesso di guardare o di cui si è perso memoria, riprendano ad alimentare il fuoco delle nostre emozioni. Ed è proprio la componente emozionale derivata dai sentimenti di amicizia e poi d'amore che Giacomo instaura con due coetanee ad accompagnare e tenere insieme la libertà del flusso visivo di cui il film si compone. Schermaglie, ritrosie e piccoli dispetti si alternano a momenti di tregua, riempiti dall'evidenza di un paesaggio naturale che sembra sublimare con la sua quiete calda e riposante il montare di una scoperta, quella di Giacomo nei confronti del mondo ed in particolare dell'universo femminile, spaventosa edinsieme sublime.


Girato in pellicola ed in digitale con la leggerezza e la spontaneità compositiva già appartenuta ai giovani turchi della nouvelle vague francese, "L'estate di Giacomo" nonostante la sua natura indipendente, soprattutto dal punto di vista produttivo, è tutt'altro che un film improvvisato. Se infatti il pedinamento e l'osservazione quasi antropologica di protagonisti rubati alla vita reale - ad interpretare se stessi e la propria esistenza sono in questo caso amici e familiari del regista - potrebbe far pensare ad una stanca riproduzione di stampo neorealistica, con tutto le conseguenze in termini di mancata fantasia e varietà, in questo caso il pericolo viene meno per mano dell'autore che facendo entrare in gioco l'elemento naturale, non solo il paesaggio ma anche la luce ed i suoi rumori, con quello specificatamente tecnico, soprattutto nelle sequenze associate mediante un montaggio rispondente più ad un bisogno di coerenza emozionale che di linearità narrativa, riesce a ricreare un microcosmo poetico e fuori dal tempo, nel quale lo spettatore si sente parte in causa, disturbato quando Giacomo aderisce alla vita con rabbia, come succede all'inizio del film con la batteria malmenata fragorosamente dal ragazzo ripreso di spalle, rivitalizzato laddove la sua innocente ingenuità rompe le convenzioni di una gioventù che il cinema italiano ama più mettere in posa che capire. Certo molto di quello che rimane fuori dall'opera - il girato poi scartato in sede finale prevedeva una fase ospedaliera conseguente all'operazione a cui Giacomo si era sottoposto per riacquistare parte dell'udito alternata alla sezione estiva - così come alcuni passaggi del film poco spiegati lasciano un sensazione di incompletezza, di un risultato più simile ad una dichiarazione d'intenti che ad un'opera compiuta. Questo però non diminuisce la purezza dello sguardo e la perfetta commistione tra cinema e documentario che avvicinano "L'estate di Giacomo" ai capolavori di Frammartino e Marcello. In prospettiva quello di Alessandro Comodin è un esordio che lascia ben sperare.
(pubblicata su ondacinema.it)

lunedì 2 luglio 2012

Qualche nuvola

Un tempo li chiamavano poveri ma belli ed erano film che pur rispecchiando in maniera realistica la condizione di un paese, l'Italia, appena uscita dalla guerra, la ritraevano attraverso le prospettive di personaggi ingenui e perennemente innamorati. A quel modello di cinema, a suo tempo definito realismo rosa, ci pare possa aspirare "Qualche nuvola" la commedia dell'esordiente Saverio Di Biaggio, ultimo scampolo di una new wave italiana decisa a rinfrescare il panorama del nostro cinema d'autore. Per farlo Di Biaggio sceglie un titolo esemplare per molti motivi. Quello più eloquente deriva proprio dalla scelta del riferimento meteorologico che se da una parte invita a fare attenzione, a prendere eventuali precauzioni, dall'altra con la sua distratta indeterminatezza sembra quasi manifestare una voglia di non prendersi sul serio che poi è la stessa che il regista mette in mostra nel corso del film, quando in diversi momenti della storia gli aspetti drammatici vengono stemperati da un umorismo pieno di buon senso. Ma più di ogni altra cosa le nuvole sono i pensieri che passano per la testa a Diego quando alla vigilia delle nozze con Cinzia si infatua dell'affascinante inquilina della casa in cui sta eseguendo i lavori di ristrutturazione. Muratore con ambizioni imprenditoriali, il giovane rischierà di mandare a monte il sogno di una vita.
Incentrato su un triangolo amoroso costruito sulle differenze, caratteriali e sociali, dei tre protagonisti, con la bella Viola (Aylin Prandi già vista ne "Il paese delle spose infelici", 2011) a rappresentare per Diego il contraltare affascinante ed esotico ad un'esistenza trascorsa dentro gli orizzonti del quartiere- il film è ambientato al Quadraro, emblema di una Roma popolare e periferica- e ad un legame sentimentalmente ancorato alle sicurezze di un amore iniziato in tenera età, "Qualche nuvola" si divide equamente tra i preparativi del matrimonio, complicati dalle manie di Cinzia, continuamente insoddisfatta delle proposte per migliorare l'allestimento del nido familiare, e le scappatelle di Diego, stregato dall'affinità anche intellettuale con una donna così lontana da quelle che aveva fin lì conosciuto. A fare da contorno i rispettivi familiari, con la presenza sanguigna di Giorgio Colangeli nel ruolo del padre della sposa, ed un nugolo di amici tra cui si distingue Michele Riondino nei panni di un prete interessato tanto alla salute spirituale quanto a quella fisica di Diego, suo compagno di squadra nel torneo di calcetto, e Primo Reggiani, pusher dal cuore d'oro, eternamente sopra le righe ma pronto a sostenere la coppia nel momento del bisogno.

Autore di un'opera priva di quella prosopopea che pretenderebbe di cambiare le sorti del cinema italiano, ma comunque impegnata ad intrattenere lo spettatore con intelligenza e rara sincerità, Saverio di Biaggio si dimostra abile nell'orchestrazione delle voci, amalgamando in maniera equilibrata i diversi gironi del suo simpatico presepe. A prevalere però è la simpatica umanità dei due protagonisti interpretati con felice immedesimazione da Michele Alhaique e Greta Scarano. Presentato nella sezione controcampo italiano dell'ultimo festival veneziano "Qualche nuvola" si colloca in quella terra di nessuno lasciata libera da una commedia italiana sempre più rivolta alla soddisfazione di appetiti di tipo catodico.
(pubblicata su ondacinema.it)

venerdì 29 giugno 2012

Giulia non esce la sera

Ci sono molti modi di incontrarsi, e normalmente le occasioni più belle avvengono per caso, quando la persona del cuore si materializza in modo insospettabile e prende piede nella vita dell’altro compiendo traiettorie spiazzanti come quelle tracciate da Giulia, detenuta modello ed istruttrice di nuoto nelle ore di libertà vigilata. I suoi sono gesti anonimi, scontati per chi fa il suo lavoro, che verrebbero assorbiti dal rumore sordo di una piscina affollata se non fosse per la predisposizione di Guido, scrittore di una certa fama, a soffermarsi sui dettagli dell’esistenza come una parola non detta, uno sguardo distratto e soprattutto quella sensazione di un isolamento voluto che Giulia mette in modo per negarsi e se stessa ed al mondo. Per lei oltre ad una pena da scontare  anche la figlia adolescente che ha abbandonato e che ora non la vuole più vedere. La primogenita di Guido è invece la parte migliore di una condizione familiare precaria per la mancata affinità con una moglie incapace di apprezzare il suo talento.

Nell’universo cinematografico di Giuseppe Piccioni la solitudine è una costante a qualsiasi latitudine Immersi nel loro mondo personale, obbligati dall’eccezionalità del loro carattere e dalle scelte che mettono in atto i personaggi del regista marchigiano sono alieni destinati a comprendersi tra di loro oppure a restare soli. Una condizione che le storie del regista marchigiano provano a spezzare mettendo in scena momenti di condivisione tra uomini e donne eternamente a disagio nel confronto con l’altro. Come già Antonio e Maria di "Luce dei miei occhi"(2001) e Ernesto e Caterina di "Fuori dal mondo" (1999) anche Guido e Giulia hanno nei propri cromosomi le stimmate di una esistenza materiale che li separa dalla gente, ma Piccioni non si accontenta di scrivere le caratteristiche sulla carta d’identità dei personaggi, immaginando per loro due luoghi necessariamente appartati come quello della creazione artistica e della prigione, bensì ricerca proprio in quei due contesti la soluzione del problema, immergendo letteralmente i personaggi nell’essenza dell’altro, con i protagonisti del libro che Guido tenta di scrivere, magicamente presenti nella piscina dove lui prende lezioni di nuoto, e con lo scrittore che ad un certo punto si sovrappone alla sua istruttrice nell’elemento acquatico – insistite sequenze natatorie ci mostrano Guido ormai padrone dello stile che mette in pratica con lunghe sessioni di allenamento –assumendone su di sé l’abitudine a quella disciplina sportiva  quando la donna deciderà di rinunciare alle sue uscite giornaliere.


Piccioni è bravo a far emergere i piccoli scarti del cuore, a sussurrare sullo schermo la tensione che scaturisce da quel contatto, ed ancora una volta riesce a dar vita ad una poetica fatta di piccoli gesti quotidiani che in questo caso si colora di fantasia con microstorie che prendono vita dallo schermo del computer dove Guido mette in fila i pensieri per la sua nuova fatica letteraria, ed in cui l'amore impossibile rappresentato dalle vicende di uomini e donne destinati a rincorrersi per sempre è un' idealizzazione in chiave romantica di quello che sta accadendo ai due protagonisti del film. Ed è proprio la coesistenza tra questi due momenti insieme alla scelta di privilegiare le pause ed i mezzi toni che il film acquisisce un che di misterioso ed insieme leggero - in questo senso le scene dedicate ai salotti letterari che Guido frequenta sono un capolavoro di understatement ed ironia - riuscendo a parlare di cose drammatiche con la leggerezza che solitamente contraddistingue certo cinema francese. Ad aiutarlo la capacità del regista di saper prendere per mano gli attori accompagnandoli nella storia  con un essenzialità pari solo al pudore con il quale riesce a cogliere i frutti di quel lavoro. E se la Golino è da tempo una realtà del nostro cinema si può dire ormai lo stessa cosa di Mastandrea capace di infondere al suo personaggio un umanità ed una malinconia lontana da qualsiasi artificialità. Accolto con livore da molta parte della critica ed ignorato dal grande pubblico "Giulia non esce la sera" è un film all'altezza suo autore.

giovedì 21 giugno 2012

Paura in 3D


Ormai si può dire senza tema di smentite: la contrazione è il segno che meglio caratterizza il cinema dei fratelli Manetti. Il termine non riguarda solamente la questione spaziale diventata anche per questioni economiche un marchio di fabbrica della loro cinematografia con storie sviluppate quasi esclusivamente all'interno di un unico ambiente, "Piano 17"(2005) potrebbe esserne l'esempio più calzante, ma è estendibile in ugual modo sia sul piano dei temi trattati che di quello riguardante lo sviluppo dei caratteri. Senza andare troppo indietro nel tempo e facendo riferimento alla penultima uscita di questo sodalizio registico, parliamo de "L'arrivo di Wang"(2011) che ha fornito alla nuova produzione attori (Francesca Cuttica) e location (la prigione dove si svolge la maggior parte del film ma anche gli interni della villa) sono molte le cose prese in prestito da "Paura", il film che segna il ritorno ad un genere come l'horror che i due avevano già toccato seppur in chiave comedy con "Zora la vampira"(2000). Così quando dopo una breve introduzione che riporta la capitale e le sue vedute alla ribalta di un genere dal quale si era un pò distaccata - allo stesso modo "Wang" aveva riproposto la fantascienza nella città del cupolone - il film viene risucchiato nello scantinato di una villa che assomiglia ad un labirinto medievale dove tre giovani scoprono la presenza di una ragazza, Sabrina, prigioniera di un sadico aristocratico che la tortura con scientifica metodicità. Basterebbe l'incipit della storia, con la stanza degli orrori al posto di quella dove l'alieno veniva interrogato per individuare una continuità destinata a crescere quando nel tentativo di liberare l'ostaggio i protagonisti diventano a loro volta prigionieri del diabolico maniaco.

I fratelli Manetti ci mettono ancora una volta di fronte ad una realtà incomprensibile e violenta dalla quale si può solo fuggire, ma rispetto all'uscita precedente in cui la vicenda dell'extraterrestre era anche un occasione per rappresentare la condizione dell'uomo moderno incastrato in un esistenza di certezze fittizie e manipolate, qui i margini di una possibile speculazione si assottigliano ulteriormente a favore di un'attenzione quasi spasmodica per il ritmo ed il tasso adrenalinico. In questo modo anche i personaggi diventano puramente funzionali rappresentando nell'economia del film vettori di particolari che tornano utili per far tornare i conti quando l'intreccio rischierebbe di bloccarsi. Così la delusione amorosa di Simone che nelle prime sequenze viene scaricato dalla morosa, il lavoro di Ale che fa il meccanico nell'officina dove il cattivo porta a riparare l'automobile, la passione artistica di Marco che cerca di sfondare nel campo della musica non sono il tentativo di creare un mondo con dei personaggi plausibili ma l'espediente per far funzionare il meccanismo attraverso passaggi giustificati da quelle premesse. Il riscatto di Simone che si adopera fino allo sfinimento per salvare la ragazza, l'abilità di Ale nel mettere in moto la macchina che li deve far fuggire pur non avendone le chiave, ed infine la presenza delle chitarre utilizzate dai ragazzi per vivacizzare lo sballo che segue l'introduzione furtiva dentro l'abitazione diventano allora automatismi perfetti per un prodotto che non deve far pensare. Considerato che il film non fornisce alcuna spiegazione sulle ragioni che hanno scatenato quell'inferno così come rimane ambiguo sulla relazione che intercorre tra la vittima ed il suo carnefice anche quando verso la fine del film ci potrebbe essere lo spazio per una clamoroso ribaltamento,"Paura" diventa più che altro un esercizio di abilità tecnica e di stile che dimostra una volta di più la capacità dei registi di ottimizzare le (poche) risorse, di sapersi destreggiare con i codici di genere (la presenza di Stivaletti agli affetti speciali non può non rimandare ad un nume tutelare come Dario Argento) e di essere pronti per un salto di qualità produttivo che potrebbe riservare delle gradite sorprese. Detto della Francesca Cuttica, ormai attrice feticcio dei Manetti, a risultare particolarmente efficace è la performance di Peppe Servillo che nei panni del cattivissimo marchese Lenzi utilizza le sue spigolosità per disegnare una specie di Nosferatu destinato a rimanere nella galleria dei mostri dell'Horror all'italiana. Sull'utilità del formato 3D stendiamo invece un pietoso velo.
(pubblicato su ondacinema.it)

sabato 9 giugno 2012

Corpo celeste


"Corpo celeste", pur condividendo con il più famoso coinquilino ("Habemus Papam" anch'esso selezionato a Cannes e al centro di un forte scambio di opinioni) il punto di partenza, ovvero quello di una "chiamata" che diventa la presa di coscienza di qualcosa di più grande e di una responsabilità che cambia la vita, se ne distacca per la capacità di andare al cuore del problema con una radicalità, di stile e di parole, che non ammette dubbi.

Al centro della storia c'è Marta ed i corsi di catechismo che la stessa frequenta per accostarsi alla cresima. Con lei una famiglia in difficoltà (il padre è assente mentre la madre è costretta ad un lavoro faticoso per riuscire a mantenere lei e la sorella) e la comunità religiosa di una città meridionale. Persone disposte all'accoglienza a patto che ci si adegui ai rituali di una civiltà conservatrice e chiusa. L'ingenuità di Marta e il suo non riconoscersi nei comportamenti che le verranno imposti la faranno progressivamente distaccare da quel mondo.

Se l'alienazione in senso lato è il segno principale che percorre tutto il film, non solo nel girovagare e nello spaesamento di Marta che ricorda quello di certi personaggi del cinema di Antonioni, ma in generale, per la presenza di un umanità con cui è impossibile comunicare - il prete del paese dedicato agli affari della politica più che a quelli evangelici, ma anche l'insegnante di catechismo chiusa all'interno delle formule imparate a memoria ed impartite senza senza alcun spirito critico, e ancora il Vescovo e la sua curia intenti a soddisfare i propri bisogni nella scena che li vede attendere i preparativi della cerimonia chiusi in una stanza a mangiare ed incuranti dell'esistenza dei fedeli - il film della Rohrwacher è tutto giocato nella dialettica tra la rarefazione del suo personaggio principale, Marta, e la sovraesposizione delle persone che la circondano. Tanto lei è introspettiva e quasi stupita nella scoperta delle cose, quanto gli altri sono invadenti e rumorosi nell'occupazione dello spazio.

Al corpo minuto della bambina si oppone l'opulenza sgangherata del corpo ecclesiastico in un alternanza di rumori fraudolenti (la canzone che invita a "sintonizzarsi con Dio" è una nenia che attraverserà in maniera ossessiva tutto l'arco filmico) e di vuoti siderali. Ed ancora, nel contrasto tra la vita, raffigurata nel silenzioso vitalismo di Marta, nella sua attenzione verso forme di nature "non mediate" come quella dei gattini che tenterà di salvare od il pesce che continua a respirare nonostante sia rimasto fuori dall'acqua, e la morte, presente nella mancanza di spontaneità e nella preponderanza dei riti e delle convenzioni  delle relazioni umane, e soprattutto nell'episodio del crocifisso abbandonato che il parroco vorrebbe utilizzare durante la cerimonia come simbolo di ritrovata letizia, e che per questo, si adopera di recuperare con l'aiuto della giovane protagonista. E' proprio lì, di fronte a quella presenza muta ed impolverata che si compie il momento più forte del film, quella in cui, Marta, finalmente lontana dalla pazza folla, compie la sua "comunione" con il Cristo della storia. La figura che si china sopra il legno benedetto, e poi le mani che vi scorrono sopra, come a comprendere in un solo gesto l'amore commosso di una figlia devota e lo stupore  di una presa di coscienza inaspettata. Due corpi celesti, quello di Marta e quello del Cristo, condannati all'esilio da una contemporaneità che non riesce ad accettare la loro purezza.

Girato con stile scarnificato e oggettivo, "Corpo celeste" è organizzato come un racconto di formazione, in cui l'apprendistato del personaggio procede di pari passo con la scoperta delle sovrastrutture che regolano la società dove egli si muove. Intimo ed allo stesso tempo sociale, il film costringe lo spettatore a sintonizzarsi sulle onde emotive della storia grazie ad una scrittura che preferisce suggerire più che esplicitare. I rumori di fondo e quelli sparati a tutto schermo, il contrasto tra la modernità del centro urbano e l'arcaicità del paesaggio naturale rendono la narrazione per lunghi tratti ipnotica e paradossalmente sospesa in un limbo di tragica attesa.
Alice Rorhwacher è un nome da tenere in mente. 
(pubblicata su ondacinema.it)

sabato 2 giugno 2012

Il ladro di bambini

Rosetta e Luciano sono due fratellini che il destino mette nelle mani di Antonio, il carabiniere calabrese che li deve accompagnare all’istituto per minori, dopo l’arresto della madre, colpevole di far prostituire la figlia con avventori occasionali. Antonio è inizialmente distaccato, risentito (“ma non li potevano affidare all’assistente sociale” dice senza neanche conoscerli) rispetto ad un incarico che sembra sminuirlo agli occhi di un ego che guarda a quella carriera come un mezzo per emanciparsi dai problemi della terra natia. Poi, complice il rifiuto dell’istituto demandato all’accoglienza dei bambini ed al conseguente prolungamento del viaggio verso la nuova destinazione, inizia ad affezionarsi ai due ragazzi di cui nessuno sembra volersi curare.

Dopo una serie di film in cui l’impegno civile si traduceva nella scelta di soggetti legati alla Storia del nostro paese (I ragazzi di via Panisperna, Colpire al cuore, Porte Aperte), Gianni Amelio cambia registro per fare i conti con le urgenze di una vicenda umana e personale, che solamente le necessità di consolidare un mestiere iniziato per scommessa e continuato per passione, avevano potuto rimandare. Così il trauma di un padre partito per Lamerica e mai più ritornato rivive nella trasposizione cinematografica negli occhi e negli sguardi dei due piccoli protagonisti, costretti a fare i conti con il dolore di un affetto negato e con un mondo che li punisce per una colpa che non hanno commesso. Amelio decide di raccontarsi e di raccontare la propria esperienza attraverso la storia di un infanzia violata, in cui l’indifferenza degli uomini, delle istituzioni e della loro leggi è ancora più dolorosa della causa che l’ha creato.

Inizialmente separati dalle rispettive esperienze, i tre personaggi si ritrovano accomunati nella stessa condizione di umiliati ed offesi fino a quando, per una situazione contingente, anche Antonio, finalmente solidale con i due diseredati, dovrà fare i conti con i meccanismi di un sistema che scambia la sua solidarietà per un colpo di testa e lo costringe a rientrare nei ranghi, a diventare come gli altri, indifferente e duro, pena la messa a rischio del posto di lavoro.

Girato con uno stile che sembra entrare in punta di piedi nella vita dei suoi personaggi (siamo lontani dal “combact film” che avrebbe caratterizzato il cinema d’autore degli anni successivi), “Ladro di bambini” è in realtà, anche sotto questo profilo un film capolavoro. Sintonizzato sulle note musicali che Francesco Piersanti riduce all’essenziale, suoni dell’anima che fanno da contraltare agli hit musicali dell’epoca (tra cui “I Maschi” di Gianna Nannini e “Le mani” di Zucchero), Amelio gira con tempismo eccezionale, utilizzando un procedimento a fisarmonica che espande e poi condensa l’anima del suo film all’interno di un intreccio volutamente esile, fatto apposta per evidenziare, senza dare la sensazione di farlo, i rami secchi di una società in decadenza: dal quartiere dormitorio  che dà l’avvio alla vicenda, simbolo di un nord dove l’immigrazione non si è mai integrata, ai palazzi della capitale in perenne decadenza, e poi con le case abusive del paesaggio calabrese, il regista sembra voler concretizzare in maniera precisa lo sradicamento esistenziale che attanaglia i protagonisti: che si tratti della casa degli orrori dove i due bambini hanno trascorso la loro giovane vita, oppure di quella senza identità, presa in affitto dai colleghi di Antonio, così come l’abitazione della sorella, una specie di ibrido architettonico, con il ristorante al piano terra e le camere senza finestre al piano di sopra, il dramma si acuisce nella mancanza di un posto dove andare od uno in cui tornare. Un disagio che il film riproduce attraverso la presenza costante dei bagagli che i tre sono costretti a trascinarsi: ingombranti, poco maneggevoli quei pesi diventano non solo l’evidenza di una costrizione fisica, ma anche il simbolo di un peso morale, di un marchio che impedisce di essere liberi. Una condizione logorante evidenziata nella scelta di restituire gli spazi della tregua in interni scarsamente accoglienti o normalmente delegati ad altro, come gli interni della macchina che Antonio ha preso in affitto o le sedie della stazione dove aspettano il treno che li porterà in Calabria, che tolgono allo spettatore qualsiasi possibilità di ricondurre quei momenti all’interno delle proprie consuetudini (al contrario i luoghi deputati al riposo diventano il palcoscenico  di questo inferno metropolitano).

Ma è soprattutto nei corpi e nei volti dei protagonisti, su cui la telecamera si sofferma, che il film costruisce la sua memoria: Amelio li mette sempre al centro della scena, insieme o separati, ne coglie gli umori attraverso gli sguardi reticenti, l’andatura indolente, il rumore dei silenzi, ma al contempo evita il melò raffreddando la scena con un paesaggio privo di quella retorica che spesso accompagna molto cinema italiano. Caratterizzato da continui cambi di luogo, “Ladro di bambini” si avvantaggia di questo dinamismo per enfatizzare l’immobilismo del mondo che fa da sfondo alla vicenda: i bambini all’interno dell’istituto religioso costretti nei banchi dal dettato della suora, le forze dell’ordine trincerate dietro scrivanie piene di carte, la famiglia di Antonio arroccata dentro un ristorante che sembra un fortilizio, diventano lo specchio di un umanità incapace di comunicare (e quando lo fa usa un linguaggio burocratico e pieno di luoghi comuni) e ripiegata su se stessa. Amelio sceglie di non gravare sullo stato emotivo dei suoi protagonisti e per questo allontana la telecamera quando Rosetta è costretta a prostituirsi, utilizza i campi lunghi per custodire meglio i rari momenti di felicità o allentare la tensione, trasformando il mezzo cinematografico in un  espediente taumaturgico capace di agire sulle endorfine degli esseri umani.

Destinato a diventare la prima puntata di un ideale trilogia (“Lamerica”  e “Così ridevano” completano il trittico)  in cui la ricerca della propria identità non potrà prescindere dal recupero del rapporto paterno, seppure surrogato da un serie di figure sostitutive (Il vecchio “Piro Milkani” de Lamerica e “Giovanni” il fratello maggiore di Così ridevano), “Ladro di bambini” riportò all’attenzione mondiale un cinema italiano che da tempo attendeva un riconoscimento a livello internazionale. Il Gran premio della giuria al festival di Cannes del 1992, l’Oscar europeo come miglior film  ed un'altra serie di premi collaterali furono il giusto riconoscimento per uno dei film più importanti dell’ultimo ventennio.

(pubblicata su ondacinema.it /pietra miliare)

domenica 20 maggio 2012

Isole

Forse è solo un caso ma si verifica con sempre maggiore frequenza che il segno principale del cinema italiano indipendente sia legato alla frequentazione di geografie territoriali non comuni. Fuori o dentro i confini nazionali la scelta del paesaggio risulta non solo lontano dalle rotte abitualmente utilizzate – in questo senso la grande metropoli è uno dei soggetti che ha subito la maggiore contrazione – ma è anche elemento preminente per sviluppare la psicologia delle figure che lo attraversano. Come capita appunto nell’ultimo film di Stefano Chiantini ambientato nelle Tremiti rese nella loro morfologia aspra ed essenziale per rappresentare la condizione di tre esseri umani, Enzo un sacerdote menomato da recente malattia, Ivan straniero senza permesso di soggiorno ed alla ricerca di un lavoro, e Martina una ragazza senza voce e senza amici, destinati a condividere le rispettive solitudini. Ed infatti è dalle strade del villaggio, strette ed irregolari oppure nei tratti in cui la vista si libera faticosamente alle distese marine, per non dire della rarefazione dell’elemento umano quasi assente, che riusciamo a tracciare il diagramma emotivo di uno stato dell’anima per il resto imprigionata dentro un silenzio ostinato e doloroso. Oltre a questo la chiara indicazione di una contemporaneità in crisi che il film esplicita attraverso le menomazioni fisiche di cui sono portatori i protagonisti, tutti per diversi motivi costretti a sopportare nel corpo le conseguenze di una sofferenza psicologica. Un pessimismo cupo e disperato che Chiantini ci trasmette ribaltando l’immagine di alterità solitamente connessa al territorio insulare e qui utilizzata come metafora di una prigione esistenziale in cui intolleranza ed incomprensione diventano il metro delle cose e degli uomini, la fonte principale di una solitudine senza scampo. Il regista in questo senso non fa sconti anche quando si tratta di parlare d’amore attraverso l’intesa tra Ivan e Martina, la cui nascente relazione viene prima osteggiata e poi impedita anche da chi avrebbe gli strumenti per capirne la giustezza.

Lontano dal cinema d’impegno civile così come da quello di puro intrattenimento “Isole” si colloca nella terra di mezzo dove trovano asilo le opere che non possono contare su un sostegno divistico e/o distributivo. Apprezzabile per la maniera con cui riesce a far fruttare le poche risorse disponibili, il film di Chiantini rimane però vittima di se stesso quando nel tentativo di presentare come nuove situazioni e personaggi ampiamente risaputi si produce in una rarefazione di parole e spiegazioni che le immagini da sole non riescono a compensare. Ne deriva un impoverimento di significati che lascia insoddisfatti e che delega al non detto, e di questa tendenza risulta esemplare l’ultima sequenza che alla maniera di “Lost in Traslation” (2003) si conclude con il mistero della frase pronunciata da Ivan all’orecchio di Martina, la parte più importante del film, quella che dovrebbe dare sostanza ad una storia che invece rimane sospesa in una neutralità senza sfogo. Interpretato da un gruppo d’attori perfettamente calati nella parte “Isole” permette ad Asia Argento di recitare lontano dai suoi rumorosi clichè ed a favore di un personaggio(Martina)che rinunciando a parlare si esprime con il linguaggio del corpo e dello sguardo. Una prova un pò monocorde ma incoraggiante, soprattutto se inquadrata in prospettiva di un rinnovamento delle sue prerogative attoriali. Presentato all’ultimo TFF “Isole” è uscito nelle sale italiane con diffusione limitata, e sulla rete dove è possibile vederlo gratuitamente. 
(pubblicata su ondacinema.it)