mercoledì 25 luglio 2012

L'estate di Giacomo

Ci sono diversi modi di fare cinema ma tutti hanno in sè il bisogno di comunicare qualcosa, non necessariamente una storia. A volte l'obiettivo è quello di raccontare una vicenda attraverso le persone, in altri casi invece è quello di parlare di una persona. Ancora immersi nei suoni e nell'ambiente della campagna friulana ed in particolare del fiume Tagliamento dove buona parte di quello che abbiamo visto ha preso forma e poi si è sviluppato, non possiamo fare a meno di pensare che "L'estate di Giacomo" nasca dalla voglia di mettere al centro dello schermo un esistenza filmata dal vivo, senza trucchi, con la pazienza di non gli eventi, lasciando che le piccole cose, quelle che abbiamo smesso di guardare o di cui si è perso memoria, riprendano ad alimentare il fuoco delle nostre emozioni. Ed è proprio la componente emozionale derivata dai sentimenti di amicizia e poi d'amore che Giacomo instaura con due coetanee ad accompagnare e tenere insieme la libertà del flusso visivo di cui il film si compone. Schermaglie, ritrosie e piccoli dispetti si alternano a momenti di tregua, riempiti dall'evidenza di un paesaggio naturale che sembra sublimare con la sua quiete calda e riposante il montare di una scoperta, quella di Giacomo nei confronti del mondo ed in particolare dell'universo femminile, spaventosa edinsieme sublime.


Girato in pellicola ed in digitale con la leggerezza e la spontaneità compositiva già appartenuta ai giovani turchi della nouvelle vague francese, "L'estate di Giacomo" nonostante la sua natura indipendente, soprattutto dal punto di vista produttivo, è tutt'altro che un film improvvisato. Se infatti il pedinamento e l'osservazione quasi antropologica di protagonisti rubati alla vita reale - ad interpretare se stessi e la propria esistenza sono in questo caso amici e familiari del regista - potrebbe far pensare ad una stanca riproduzione di stampo neorealistica, con tutto le conseguenze in termini di mancata fantasia e varietà, in questo caso il pericolo viene meno per mano dell'autore che facendo entrare in gioco l'elemento naturale, non solo il paesaggio ma anche la luce ed i suoi rumori, con quello specificatamente tecnico, soprattutto nelle sequenze associate mediante un montaggio rispondente più ad un bisogno di coerenza emozionale che di linearità narrativa, riesce a ricreare un microcosmo poetico e fuori dal tempo, nel quale lo spettatore si sente parte in causa, disturbato quando Giacomo aderisce alla vita con rabbia, come succede all'inizio del film con la batteria malmenata fragorosamente dal ragazzo ripreso di spalle, rivitalizzato laddove la sua innocente ingenuità rompe le convenzioni di una gioventù che il cinema italiano ama più mettere in posa che capire. Certo molto di quello che rimane fuori dall'opera - il girato poi scartato in sede finale prevedeva una fase ospedaliera conseguente all'operazione a cui Giacomo si era sottoposto per riacquistare parte dell'udito alternata alla sezione estiva - così come alcuni passaggi del film poco spiegati lasciano un sensazione di incompletezza, di un risultato più simile ad una dichiarazione d'intenti che ad un'opera compiuta. Questo però non diminuisce la purezza dello sguardo e la perfetta commistione tra cinema e documentario che avvicinano "L'estate di Giacomo" ai capolavori di Frammartino e Marcello. In prospettiva quello di Alessandro Comodin è un esordio che lascia ben sperare.
(pubblicata su ondacinema.it)

lunedì 2 luglio 2012

Qualche nuvola

Un tempo li chiamavano poveri ma belli ed erano film che pur rispecchiando in maniera realistica la condizione di un paese, l'Italia, appena uscita dalla guerra, la ritraevano attraverso le prospettive di personaggi ingenui e perennemente innamorati. A quel modello di cinema, a suo tempo definito realismo rosa, ci pare possa aspirare "Qualche nuvola" la commedia dell'esordiente Saverio Di Biaggio, ultimo scampolo di una new wave italiana decisa a rinfrescare il panorama del nostro cinema d'autore. Per farlo Di Biaggio sceglie un titolo esemplare per molti motivi. Quello più eloquente deriva proprio dalla scelta del riferimento meteorologico che se da una parte invita a fare attenzione, a prendere eventuali precauzioni, dall'altra con la sua distratta indeterminatezza sembra quasi manifestare una voglia di non prendersi sul serio che poi è la stessa che il regista mette in mostra nel corso del film, quando in diversi momenti della storia gli aspetti drammatici vengono stemperati da un umorismo pieno di buon senso. Ma più di ogni altra cosa le nuvole sono i pensieri che passano per la testa a Diego quando alla vigilia delle nozze con Cinzia si infatua dell'affascinante inquilina della casa in cui sta eseguendo i lavori di ristrutturazione. Muratore con ambizioni imprenditoriali, il giovane rischierà di mandare a monte il sogno di una vita.
Incentrato su un triangolo amoroso costruito sulle differenze, caratteriali e sociali, dei tre protagonisti, con la bella Viola (Aylin Prandi già vista ne "Il paese delle spose infelici", 2011) a rappresentare per Diego il contraltare affascinante ed esotico ad un'esistenza trascorsa dentro gli orizzonti del quartiere- il film è ambientato al Quadraro, emblema di una Roma popolare e periferica- e ad un legame sentimentalmente ancorato alle sicurezze di un amore iniziato in tenera età, "Qualche nuvola" si divide equamente tra i preparativi del matrimonio, complicati dalle manie di Cinzia, continuamente insoddisfatta delle proposte per migliorare l'allestimento del nido familiare, e le scappatelle di Diego, stregato dall'affinità anche intellettuale con una donna così lontana da quelle che aveva fin lì conosciuto. A fare da contorno i rispettivi familiari, con la presenza sanguigna di Giorgio Colangeli nel ruolo del padre della sposa, ed un nugolo di amici tra cui si distingue Michele Riondino nei panni di un prete interessato tanto alla salute spirituale quanto a quella fisica di Diego, suo compagno di squadra nel torneo di calcetto, e Primo Reggiani, pusher dal cuore d'oro, eternamente sopra le righe ma pronto a sostenere la coppia nel momento del bisogno.

Autore di un'opera priva di quella prosopopea che pretenderebbe di cambiare le sorti del cinema italiano, ma comunque impegnata ad intrattenere lo spettatore con intelligenza e rara sincerità, Saverio di Biaggio si dimostra abile nell'orchestrazione delle voci, amalgamando in maniera equilibrata i diversi gironi del suo simpatico presepe. A prevalere però è la simpatica umanità dei due protagonisti interpretati con felice immedesimazione da Michele Alhaique e Greta Scarano. Presentato nella sezione controcampo italiano dell'ultimo festival veneziano "Qualche nuvola" si colloca in quella terra di nessuno lasciata libera da una commedia italiana sempre più rivolta alla soddisfazione di appetiti di tipo catodico.
(pubblicata su ondacinema.it)

venerdì 29 giugno 2012

Giulia non esce la sera

Ci sono molti modi di incontrarsi, e normalmente le occasioni più belle avvengono per caso, quando la persona del cuore si materializza in modo insospettabile e prende piede nella vita dell’altro compiendo traiettorie spiazzanti come quelle tracciate da Giulia, detenuta modello ed istruttrice di nuoto nelle ore di libertà vigilata. I suoi sono gesti anonimi, scontati per chi fa il suo lavoro, che verrebbero assorbiti dal rumore sordo di una piscina affollata se non fosse per la predisposizione di Guido, scrittore di una certa fama, a soffermarsi sui dettagli dell’esistenza come una parola non detta, uno sguardo distratto e soprattutto quella sensazione di un isolamento voluto che Giulia mette in modo per negarsi e se stessa ed al mondo. Per lei oltre ad una pena da scontare  anche la figlia adolescente che ha abbandonato e che ora non la vuole più vedere. La primogenita di Guido è invece la parte migliore di una condizione familiare precaria per la mancata affinità con una moglie incapace di apprezzare il suo talento.

Nell’universo cinematografico di Giuseppe Piccioni la solitudine è una costante a qualsiasi latitudine Immersi nel loro mondo personale, obbligati dall’eccezionalità del loro carattere e dalle scelte che mettono in atto i personaggi del regista marchigiano sono alieni destinati a comprendersi tra di loro oppure a restare soli. Una condizione che le storie del regista marchigiano provano a spezzare mettendo in scena momenti di condivisione tra uomini e donne eternamente a disagio nel confronto con l’altro. Come già Antonio e Maria di "Luce dei miei occhi"(2001) e Ernesto e Caterina di "Fuori dal mondo" (1999) anche Guido e Giulia hanno nei propri cromosomi le stimmate di una esistenza materiale che li separa dalla gente, ma Piccioni non si accontenta di scrivere le caratteristiche sulla carta d’identità dei personaggi, immaginando per loro due luoghi necessariamente appartati come quello della creazione artistica e della prigione, bensì ricerca proprio in quei due contesti la soluzione del problema, immergendo letteralmente i personaggi nell’essenza dell’altro, con i protagonisti del libro che Guido tenta di scrivere, magicamente presenti nella piscina dove lui prende lezioni di nuoto, e con lo scrittore che ad un certo punto si sovrappone alla sua istruttrice nell’elemento acquatico – insistite sequenze natatorie ci mostrano Guido ormai padrone dello stile che mette in pratica con lunghe sessioni di allenamento –assumendone su di sé l’abitudine a quella disciplina sportiva  quando la donna deciderà di rinunciare alle sue uscite giornaliere.


Piccioni è bravo a far emergere i piccoli scarti del cuore, a sussurrare sullo schermo la tensione che scaturisce da quel contatto, ed ancora una volta riesce a dar vita ad una poetica fatta di piccoli gesti quotidiani che in questo caso si colora di fantasia con microstorie che prendono vita dallo schermo del computer dove Guido mette in fila i pensieri per la sua nuova fatica letteraria, ed in cui l'amore impossibile rappresentato dalle vicende di uomini e donne destinati a rincorrersi per sempre è un' idealizzazione in chiave romantica di quello che sta accadendo ai due protagonisti del film. Ed è proprio la coesistenza tra questi due momenti insieme alla scelta di privilegiare le pause ed i mezzi toni che il film acquisisce un che di misterioso ed insieme leggero - in questo senso le scene dedicate ai salotti letterari che Guido frequenta sono un capolavoro di understatement ed ironia - riuscendo a parlare di cose drammatiche con la leggerezza che solitamente contraddistingue certo cinema francese. Ad aiutarlo la capacità del regista di saper prendere per mano gli attori accompagnandoli nella storia  con un essenzialità pari solo al pudore con il quale riesce a cogliere i frutti di quel lavoro. E se la Golino è da tempo una realtà del nostro cinema si può dire ormai lo stessa cosa di Mastandrea capace di infondere al suo personaggio un umanità ed una malinconia lontana da qualsiasi artificialità. Accolto con livore da molta parte della critica ed ignorato dal grande pubblico "Giulia non esce la sera" è un film all'altezza suo autore.

giovedì 21 giugno 2012

Paura in 3D


Ormai si può dire senza tema di smentite: la contrazione è il segno che meglio caratterizza il cinema dei fratelli Manetti. Il termine non riguarda solamente la questione spaziale diventata anche per questioni economiche un marchio di fabbrica della loro cinematografia con storie sviluppate quasi esclusivamente all'interno di un unico ambiente, "Piano 17"(2005) potrebbe esserne l'esempio più calzante, ma è estendibile in ugual modo sia sul piano dei temi trattati che di quello riguardante lo sviluppo dei caratteri. Senza andare troppo indietro nel tempo e facendo riferimento alla penultima uscita di questo sodalizio registico, parliamo de "L'arrivo di Wang"(2011) che ha fornito alla nuova produzione attori (Francesca Cuttica) e location (la prigione dove si svolge la maggior parte del film ma anche gli interni della villa) sono molte le cose prese in prestito da "Paura", il film che segna il ritorno ad un genere come l'horror che i due avevano già toccato seppur in chiave comedy con "Zora la vampira"(2000). Così quando dopo una breve introduzione che riporta la capitale e le sue vedute alla ribalta di un genere dal quale si era un pò distaccata - allo stesso modo "Wang" aveva riproposto la fantascienza nella città del cupolone - il film viene risucchiato nello scantinato di una villa che assomiglia ad un labirinto medievale dove tre giovani scoprono la presenza di una ragazza, Sabrina, prigioniera di un sadico aristocratico che la tortura con scientifica metodicità. Basterebbe l'incipit della storia, con la stanza degli orrori al posto di quella dove l'alieno veniva interrogato per individuare una continuità destinata a crescere quando nel tentativo di liberare l'ostaggio i protagonisti diventano a loro volta prigionieri del diabolico maniaco.

I fratelli Manetti ci mettono ancora una volta di fronte ad una realtà incomprensibile e violenta dalla quale si può solo fuggire, ma rispetto all'uscita precedente in cui la vicenda dell'extraterrestre era anche un occasione per rappresentare la condizione dell'uomo moderno incastrato in un esistenza di certezze fittizie e manipolate, qui i margini di una possibile speculazione si assottigliano ulteriormente a favore di un'attenzione quasi spasmodica per il ritmo ed il tasso adrenalinico. In questo modo anche i personaggi diventano puramente funzionali rappresentando nell'economia del film vettori di particolari che tornano utili per far tornare i conti quando l'intreccio rischierebbe di bloccarsi. Così la delusione amorosa di Simone che nelle prime sequenze viene scaricato dalla morosa, il lavoro di Ale che fa il meccanico nell'officina dove il cattivo porta a riparare l'automobile, la passione artistica di Marco che cerca di sfondare nel campo della musica non sono il tentativo di creare un mondo con dei personaggi plausibili ma l'espediente per far funzionare il meccanismo attraverso passaggi giustificati da quelle premesse. Il riscatto di Simone che si adopera fino allo sfinimento per salvare la ragazza, l'abilità di Ale nel mettere in moto la macchina che li deve far fuggire pur non avendone le chiave, ed infine la presenza delle chitarre utilizzate dai ragazzi per vivacizzare lo sballo che segue l'introduzione furtiva dentro l'abitazione diventano allora automatismi perfetti per un prodotto che non deve far pensare. Considerato che il film non fornisce alcuna spiegazione sulle ragioni che hanno scatenato quell'inferno così come rimane ambiguo sulla relazione che intercorre tra la vittima ed il suo carnefice anche quando verso la fine del film ci potrebbe essere lo spazio per una clamoroso ribaltamento,"Paura" diventa più che altro un esercizio di abilità tecnica e di stile che dimostra una volta di più la capacità dei registi di ottimizzare le (poche) risorse, di sapersi destreggiare con i codici di genere (la presenza di Stivaletti agli affetti speciali non può non rimandare ad un nume tutelare come Dario Argento) e di essere pronti per un salto di qualità produttivo che potrebbe riservare delle gradite sorprese. Detto della Francesca Cuttica, ormai attrice feticcio dei Manetti, a risultare particolarmente efficace è la performance di Peppe Servillo che nei panni del cattivissimo marchese Lenzi utilizza le sue spigolosità per disegnare una specie di Nosferatu destinato a rimanere nella galleria dei mostri dell'Horror all'italiana. Sull'utilità del formato 3D stendiamo invece un pietoso velo.
(pubblicato su ondacinema.it)

sabato 9 giugno 2012

Corpo celeste


"Corpo celeste", pur condividendo con il più famoso coinquilino ("Habemus Papam" anch'esso selezionato a Cannes e al centro di un forte scambio di opinioni) il punto di partenza, ovvero quello di una "chiamata" che diventa la presa di coscienza di qualcosa di più grande e di una responsabilità che cambia la vita, se ne distacca per la capacità di andare al cuore del problema con una radicalità, di stile e di parole, che non ammette dubbi.

Al centro della storia c'è Marta ed i corsi di catechismo che la stessa frequenta per accostarsi alla cresima. Con lei una famiglia in difficoltà (il padre è assente mentre la madre è costretta ad un lavoro faticoso per riuscire a mantenere lei e la sorella) e la comunità religiosa di una città meridionale. Persone disposte all'accoglienza a patto che ci si adegui ai rituali di una civiltà conservatrice e chiusa. L'ingenuità di Marta e il suo non riconoscersi nei comportamenti che le verranno imposti la faranno progressivamente distaccare da quel mondo.

Se l'alienazione in senso lato è il segno principale che percorre tutto il film, non solo nel girovagare e nello spaesamento di Marta che ricorda quello di certi personaggi del cinema di Antonioni, ma in generale, per la presenza di un umanità con cui è impossibile comunicare - il prete del paese dedicato agli affari della politica più che a quelli evangelici, ma anche l'insegnante di catechismo chiusa all'interno delle formule imparate a memoria ed impartite senza senza alcun spirito critico, e ancora il Vescovo e la sua curia intenti a soddisfare i propri bisogni nella scena che li vede attendere i preparativi della cerimonia chiusi in una stanza a mangiare ed incuranti dell'esistenza dei fedeli - il film della Rohrwacher è tutto giocato nella dialettica tra la rarefazione del suo personaggio principale, Marta, e la sovraesposizione delle persone che la circondano. Tanto lei è introspettiva e quasi stupita nella scoperta delle cose, quanto gli altri sono invadenti e rumorosi nell'occupazione dello spazio.

Al corpo minuto della bambina si oppone l'opulenza sgangherata del corpo ecclesiastico in un alternanza di rumori fraudolenti (la canzone che invita a "sintonizzarsi con Dio" è una nenia che attraverserà in maniera ossessiva tutto l'arco filmico) e di vuoti siderali. Ed ancora, nel contrasto tra la vita, raffigurata nel silenzioso vitalismo di Marta, nella sua attenzione verso forme di nature "non mediate" come quella dei gattini che tenterà di salvare od il pesce che continua a respirare nonostante sia rimasto fuori dall'acqua, e la morte, presente nella mancanza di spontaneità e nella preponderanza dei riti e delle convenzioni  delle relazioni umane, e soprattutto nell'episodio del crocifisso abbandonato che il parroco vorrebbe utilizzare durante la cerimonia come simbolo di ritrovata letizia, e che per questo, si adopera di recuperare con l'aiuto della giovane protagonista. E' proprio lì, di fronte a quella presenza muta ed impolverata che si compie il momento più forte del film, quella in cui, Marta, finalmente lontana dalla pazza folla, compie la sua "comunione" con il Cristo della storia. La figura che si china sopra il legno benedetto, e poi le mani che vi scorrono sopra, come a comprendere in un solo gesto l'amore commosso di una figlia devota e lo stupore  di una presa di coscienza inaspettata. Due corpi celesti, quello di Marta e quello del Cristo, condannati all'esilio da una contemporaneità che non riesce ad accettare la loro purezza.

Girato con stile scarnificato e oggettivo, "Corpo celeste" è organizzato come un racconto di formazione, in cui l'apprendistato del personaggio procede di pari passo con la scoperta delle sovrastrutture che regolano la società dove egli si muove. Intimo ed allo stesso tempo sociale, il film costringe lo spettatore a sintonizzarsi sulle onde emotive della storia grazie ad una scrittura che preferisce suggerire più che esplicitare. I rumori di fondo e quelli sparati a tutto schermo, il contrasto tra la modernità del centro urbano e l'arcaicità del paesaggio naturale rendono la narrazione per lunghi tratti ipnotica e paradossalmente sospesa in un limbo di tragica attesa.
Alice Rorhwacher è un nome da tenere in mente. 
(pubblicata su ondacinema.it)

sabato 2 giugno 2012

Il ladro di bambini

Rosetta e Luciano sono due fratellini che il destino mette nelle mani di Antonio, il carabiniere calabrese che li deve accompagnare all’istituto per minori, dopo l’arresto della madre, colpevole di far prostituire la figlia con avventori occasionali. Antonio è inizialmente distaccato, risentito (“ma non li potevano affidare all’assistente sociale” dice senza neanche conoscerli) rispetto ad un incarico che sembra sminuirlo agli occhi di un ego che guarda a quella carriera come un mezzo per emanciparsi dai problemi della terra natia. Poi, complice il rifiuto dell’istituto demandato all’accoglienza dei bambini ed al conseguente prolungamento del viaggio verso la nuova destinazione, inizia ad affezionarsi ai due ragazzi di cui nessuno sembra volersi curare.

Dopo una serie di film in cui l’impegno civile si traduceva nella scelta di soggetti legati alla Storia del nostro paese (I ragazzi di via Panisperna, Colpire al cuore, Porte Aperte), Gianni Amelio cambia registro per fare i conti con le urgenze di una vicenda umana e personale, che solamente le necessità di consolidare un mestiere iniziato per scommessa e continuato per passione, avevano potuto rimandare. Così il trauma di un padre partito per Lamerica e mai più ritornato rivive nella trasposizione cinematografica negli occhi e negli sguardi dei due piccoli protagonisti, costretti a fare i conti con il dolore di un affetto negato e con un mondo che li punisce per una colpa che non hanno commesso. Amelio decide di raccontarsi e di raccontare la propria esperienza attraverso la storia di un infanzia violata, in cui l’indifferenza degli uomini, delle istituzioni e della loro leggi è ancora più dolorosa della causa che l’ha creato.

Inizialmente separati dalle rispettive esperienze, i tre personaggi si ritrovano accomunati nella stessa condizione di umiliati ed offesi fino a quando, per una situazione contingente, anche Antonio, finalmente solidale con i due diseredati, dovrà fare i conti con i meccanismi di un sistema che scambia la sua solidarietà per un colpo di testa e lo costringe a rientrare nei ranghi, a diventare come gli altri, indifferente e duro, pena la messa a rischio del posto di lavoro.

Girato con uno stile che sembra entrare in punta di piedi nella vita dei suoi personaggi (siamo lontani dal “combact film” che avrebbe caratterizzato il cinema d’autore degli anni successivi), “Ladro di bambini” è in realtà, anche sotto questo profilo un film capolavoro. Sintonizzato sulle note musicali che Francesco Piersanti riduce all’essenziale, suoni dell’anima che fanno da contraltare agli hit musicali dell’epoca (tra cui “I Maschi” di Gianna Nannini e “Le mani” di Zucchero), Amelio gira con tempismo eccezionale, utilizzando un procedimento a fisarmonica che espande e poi condensa l’anima del suo film all’interno di un intreccio volutamente esile, fatto apposta per evidenziare, senza dare la sensazione di farlo, i rami secchi di una società in decadenza: dal quartiere dormitorio  che dà l’avvio alla vicenda, simbolo di un nord dove l’immigrazione non si è mai integrata, ai palazzi della capitale in perenne decadenza, e poi con le case abusive del paesaggio calabrese, il regista sembra voler concretizzare in maniera precisa lo sradicamento esistenziale che attanaglia i protagonisti: che si tratti della casa degli orrori dove i due bambini hanno trascorso la loro giovane vita, oppure di quella senza identità, presa in affitto dai colleghi di Antonio, così come l’abitazione della sorella, una specie di ibrido architettonico, con il ristorante al piano terra e le camere senza finestre al piano di sopra, il dramma si acuisce nella mancanza di un posto dove andare od uno in cui tornare. Un disagio che il film riproduce attraverso la presenza costante dei bagagli che i tre sono costretti a trascinarsi: ingombranti, poco maneggevoli quei pesi diventano non solo l’evidenza di una costrizione fisica, ma anche il simbolo di un peso morale, di un marchio che impedisce di essere liberi. Una condizione logorante evidenziata nella scelta di restituire gli spazi della tregua in interni scarsamente accoglienti o normalmente delegati ad altro, come gli interni della macchina che Antonio ha preso in affitto o le sedie della stazione dove aspettano il treno che li porterà in Calabria, che tolgono allo spettatore qualsiasi possibilità di ricondurre quei momenti all’interno delle proprie consuetudini (al contrario i luoghi deputati al riposo diventano il palcoscenico  di questo inferno metropolitano).

Ma è soprattutto nei corpi e nei volti dei protagonisti, su cui la telecamera si sofferma, che il film costruisce la sua memoria: Amelio li mette sempre al centro della scena, insieme o separati, ne coglie gli umori attraverso gli sguardi reticenti, l’andatura indolente, il rumore dei silenzi, ma al contempo evita il melò raffreddando la scena con un paesaggio privo di quella retorica che spesso accompagna molto cinema italiano. Caratterizzato da continui cambi di luogo, “Ladro di bambini” si avvantaggia di questo dinamismo per enfatizzare l’immobilismo del mondo che fa da sfondo alla vicenda: i bambini all’interno dell’istituto religioso costretti nei banchi dal dettato della suora, le forze dell’ordine trincerate dietro scrivanie piene di carte, la famiglia di Antonio arroccata dentro un ristorante che sembra un fortilizio, diventano lo specchio di un umanità incapace di comunicare (e quando lo fa usa un linguaggio burocratico e pieno di luoghi comuni) e ripiegata su se stessa. Amelio sceglie di non gravare sullo stato emotivo dei suoi protagonisti e per questo allontana la telecamera quando Rosetta è costretta a prostituirsi, utilizza i campi lunghi per custodire meglio i rari momenti di felicità o allentare la tensione, trasformando il mezzo cinematografico in un  espediente taumaturgico capace di agire sulle endorfine degli esseri umani.

Destinato a diventare la prima puntata di un ideale trilogia (“Lamerica”  e “Così ridevano” completano il trittico)  in cui la ricerca della propria identità non potrà prescindere dal recupero del rapporto paterno, seppure surrogato da un serie di figure sostitutive (Il vecchio “Piro Milkani” de Lamerica e “Giovanni” il fratello maggiore di Così ridevano), “Ladro di bambini” riportò all’attenzione mondiale un cinema italiano che da tempo attendeva un riconoscimento a livello internazionale. Il Gran premio della giuria al festival di Cannes del 1992, l’Oscar europeo come miglior film  ed un'altra serie di premi collaterali furono il giusto riconoscimento per uno dei film più importanti dell’ultimo ventennio.

(pubblicata su ondacinema.it /pietra miliare)

domenica 20 maggio 2012

Isole

Forse è solo un caso ma si verifica con sempre maggiore frequenza che il segno principale del cinema italiano indipendente sia legato alla frequentazione di geografie territoriali non comuni. Fuori o dentro i confini nazionali la scelta del paesaggio risulta non solo lontano dalle rotte abitualmente utilizzate – in questo senso la grande metropoli è uno dei soggetti che ha subito la maggiore contrazione – ma è anche elemento preminente per sviluppare la psicologia delle figure che lo attraversano. Come capita appunto nell’ultimo film di Stefano Chiantini ambientato nelle Tremiti rese nella loro morfologia aspra ed essenziale per rappresentare la condizione di tre esseri umani, Enzo un sacerdote menomato da recente malattia, Ivan straniero senza permesso di soggiorno ed alla ricerca di un lavoro, e Martina una ragazza senza voce e senza amici, destinati a condividere le rispettive solitudini. Ed infatti è dalle strade del villaggio, strette ed irregolari oppure nei tratti in cui la vista si libera faticosamente alle distese marine, per non dire della rarefazione dell’elemento umano quasi assente, che riusciamo a tracciare il diagramma emotivo di uno stato dell’anima per il resto imprigionata dentro un silenzio ostinato e doloroso. Oltre a questo la chiara indicazione di una contemporaneità in crisi che il film esplicita attraverso le menomazioni fisiche di cui sono portatori i protagonisti, tutti per diversi motivi costretti a sopportare nel corpo le conseguenze di una sofferenza psicologica. Un pessimismo cupo e disperato che Chiantini ci trasmette ribaltando l’immagine di alterità solitamente connessa al territorio insulare e qui utilizzata come metafora di una prigione esistenziale in cui intolleranza ed incomprensione diventano il metro delle cose e degli uomini, la fonte principale di una solitudine senza scampo. Il regista in questo senso non fa sconti anche quando si tratta di parlare d’amore attraverso l’intesa tra Ivan e Martina, la cui nascente relazione viene prima osteggiata e poi impedita anche da chi avrebbe gli strumenti per capirne la giustezza.

Lontano dal cinema d’impegno civile così come da quello di puro intrattenimento “Isole” si colloca nella terra di mezzo dove trovano asilo le opere che non possono contare su un sostegno divistico e/o distributivo. Apprezzabile per la maniera con cui riesce a far fruttare le poche risorse disponibili, il film di Chiantini rimane però vittima di se stesso quando nel tentativo di presentare come nuove situazioni e personaggi ampiamente risaputi si produce in una rarefazione di parole e spiegazioni che le immagini da sole non riescono a compensare. Ne deriva un impoverimento di significati che lascia insoddisfatti e che delega al non detto, e di questa tendenza risulta esemplare l’ultima sequenza che alla maniera di “Lost in Traslation” (2003) si conclude con il mistero della frase pronunciata da Ivan all’orecchio di Martina, la parte più importante del film, quella che dovrebbe dare sostanza ad una storia che invece rimane sospesa in una neutralità senza sfogo. Interpretato da un gruppo d’attori perfettamente calati nella parte “Isole” permette ad Asia Argento di recitare lontano dai suoi rumorosi clichè ed a favore di un personaggio(Martina)che rinunciando a parlare si esprime con il linguaggio del corpo e dello sguardo. Una prova un pò monocorde ma incoraggiante, soprattutto se inquadrata in prospettiva di un rinnovamento delle sue prerogative attoriali. Presentato all’ultimo TFF “Isole” è uscito nelle sale italiane con diffusione limitata, e sulla rete dove è possibile vederlo gratuitamente. 
(pubblicata su ondacinema.it)



lunedì 14 maggio 2012

Il richiamo



Anime destinate ad incontrarsi sulla base di un reciproco dolore. Isole di un universo sconosciuto eppure vicinissimo entrano in collisione in maniera casuale ma inevitabile. L'impatto sarà rumoroso e cambierà lo stato delle cose. Sicuramente darà vita a nuove possibilità. È con la consapevolezza di un nuovo inizio che si conclude l'ultimo film di Stefano Pasetto, regista da un po' di tempo sulla breccia ma per motivi legati alle logiche della distribuzione italiana ancora al palo con il suo secondo film, pronto già da un anno e solo ora in uscita nonostante il plauso ottenuto oltre confine nei festival dov'è stato presentato. A questa constatazione di rinnovamento che abbraccia il significato ultimo della storia appena raccontata se ne aggiunge un altro che riguarda da vicino i personaggi di Lucia e Lea, le due donne che in modo meno eclatante ma sicuramente molto simile a quella di "Thelma e Louise" (1999) danno vita ad una ribellione nei confronti della loro esistenza incompleta, e delle persone che ne fanno parte, ad incominciare dagli uomini, incapaci di capire le loro inquietudini e qui esclusi da una complicità che dopo l'amplesso consumato più come reazione ad un malessere reciproco che ad un attrazione sessuale, e successivamente nel viaggio attraverso la Patagonia argentina, si trasforma forse in qualcosa di più.

Ma dicevamo dei personaggi ancora una volta come già accadeva in "Tartarughe sul dorso"(2005) colti in un mutamento che gli farà cambiare pelle. E se nel film d'esordio le figure centrali interpretate da Fabio Rongione e Barbara Bobulova restavano in qualche modo in sospeso, bloccate nel loro percorso dalle conseguenze del gesto violento - lui finiva in prigione per aver voluto vendicare con il sangue le molestie di cui lei è stata vittima - che gli aveva permesso di prendere atto del nuovo corso, nel caso de "Il richiamo" questo tragitto si compie non solo attraverso variazioni che segnano in senso fisico il corpo, risanandolo, ma che arrivano fino in fondo attraverso uno strappo interiore e personale, quello che porterà Lucia e Lea a separarsi una volta per tutte dal fardello (per Lucia la mancata gravidanza per Lea l'assenza della figura paterna) che ne condiziona in negativo l'esistenza.
Ultimo arrivato in termini distributivi ma in realtà apripista (il film è stato prodotto nel 2011) di un cinema italiano che prova a liberarsi dal provincialismo a cominciare dai luoghi in cui viene girato - era già successo con i film di Volo, Sorrentino e Faenza ambientati in america ma anche nella rarefazione del paesaggio urbano dell'Italia filmata da Marina Spada nella sua ultima opera - "Il richiamo" ha il suo punto di forza nella capacità di far crescere i personaggi senza la fretta che contraddistingue molto cinema contemporaneo, nel modo con cui utilizza l'ambiente, mettendolo in corrispondenza con gli stati d'animo dei protagonisti, Buenos Aires pulsante ed affollata quando nella prima parte deve fare da specchio al crescendo interiore che mette in discussione certezze che non sono più tali, la Patagonia spoglia e scarsamente frequentata a rappresentare una presa di coscienza netta ed inappuntabile in quella finale.

Ma queste qualità, a cui si aggiunge la scelta di filmare con una semplicità che certamente si addice alla volontà di riprodurre una quotidianità essenziale e priva di orpelli, sono costrette a fare i conti con una certa prevedibilità nella rappresentazione dell'universo femminile, per molti versi uguale nella suo percorso di guarigione esistenziale a quello di certe produzioni nostrane - "Le acrobate" di Silvio Soldini (1997) potrebbe essere un modello - e che trova nella performance distante ed implosa di Sandra Ceccarelli un prototipo riuscito ma fortemente praticato, ed in quella di Francesca Inaudi una proposizione sin troppo caricata anche per un personaggio come quello di Lea, agli antipodi per leggerezza ed esuberanza rispetto a quello introverso e malinconico di Lucia. E poi con una certa difficoltà nella chiusura, più volte rimandata con inserti come quella dall'anziana signora a cui Sandra decide di dare lezioni di pianoforte che non aggiunge nulla ma sembra messo apposta dal regista per piazzare qualche frase ad effetto sulle verità dell'esistenza. Ancora sul versante distributivo si registra la penalizzazione di un doppiaggio che per ragioni di opportunità commerciale ci ha privato della versione originale, girata in lingua spagnola. Davvero un peccato ma anche un segno dei nostri tempi. 
(pubblicate su ondacinema.it)

domenica 22 aprile 2012


Portare un libro sullo schermo, tradurre per immagini la parola e soprattutto i pensieri di uno scrittore è un compito difficile. Chi ci ha provato, tranne rare eccezioni, ricordiamo lo "Shining" di Kubrick, peraltro disconosciuto dall'autore del testo, ha dovuto subire le critiche di coloro che avendo letto il libro si sono sentiti a vario modo traditi per una versione troppo ossequiosa o all'opposto fin troppo sbarazzina. Nel caso de "Il primo uomo" a questi motivi si aggiunge il fatto che a firmare l'opera letteraria è Albert Camus, artista a tuttotondo (scrittore, drammaturgo, polemista) ma prima ancora intellettuale militante, impegnato in prima persona nelle faccende che riguardarono la sua terra natale, l'Algeria, coinvolta verso la metà del novecento in una guerra sanguinosa e fratricida volta ad ottenere l'indipendenza dalla Francia colonialista di quel periodo.
Ed è proprio in quest'ottica che Jacques Cormery, alter ego dello scrittore, accetta l'invito dell'università di Algeri, dove il suo intervento a favore di una riconosciuta autonomia culturale del paese prima ancora che geopolitica viene sonoramente disapprovata da chi ne vorrebbe mantenere inalterato lo statuto. Sulla scia di quell' evento e con i segni di un conflitto sempre più evidente Cormery inizia un viaggio della memoria che lo riporterà ai luoghi di un infanzia povera ma vitale, rivisitata nei ricordi dello scrittore ed attraverso i colloqui con le persone che vi presero parte, in primo luogo l'anziana madre amorevole ma distante ed il maestro che per primo ne capì l'eccezionalità aiutandolo ad ottenere la borsa di studio che darà il via alla sua eccezionale carriera, e poi il compagno di scuola che gli chiede di salvare il proprio figlio condannato a morte con l'accusa di aver favorito l'attentato in cui sono morti numerosi civili.
Caratterizzato da una lunga gestazione e condizionato da problemi produttivi che ne hanno messo in forse il regolare svolgimento "Il primo uomo" è innanzitutto il ritorno al cinema di un regista importante. Per far questo Amelio sceglie un opera a lui congeniale non solo per essere il frutto di una personalità costretta come lui ha conquistarsi uno spazio, artistico e sociale, inizialmente negato da umili origini ed indelebilmente segnato dall'assenza della figura paterna (il padre di Camus morì giovanissimo nella battaglia della Marna mentre quello di Amelio emigrò in Argentina e li rimase) ma ancor più nella coincidenza di contenuti che nel rapporto tra padri e figli e nei motivi dell'infanzia rubata trovano perfetta corrispondenza nel cinema del regista calabrese. La familiarità è però chiamata a fare i conti con un testo scritto, denso e stratificato, intessuto fino all'orlo di un panteismo che in Camus è una vera e propria religione (in assenza di quella ufficiale) humus che nutre i personaggi e le loro azioni. Un richiamo costante di cui il film di Amelio non riesce a farsi carico nella costruzione psicologica dei protagonisti e nella dialettica con l'ambiente in cui questi si muovono, racchiuso da inquadrature prive di orizzonte (forse per sottolineare la dimensione interiore del racconto oppure per le sopraggiunte difficoltà finanziarie) ed interamente risolta in chiave nostalgica da una fotografia pastosa ed intessuta di tonalità dorate. Un vuoto che Amelio sostituisce forzando la mano in chiave ideologica e politica, facendo derivare l'incipit del film, ovvero il ritorno in patria e la successiva "indagine" non tanto dalla necessità di fare luce sulla personalità di un padre mai conosciuto ma piuttosto, ed in film su questa direzione baserà soprattutto la seconda parte con il tentativo di Jacques di liberare il figlio dell'amico ingiustamente incolpato e poi nell'invito a scongiurare una guerra fratricida divulgato con un intervento radiofonico, sull' attitudine civile e militante del protagonista. "Il primo uomo" di Amelio si carica allora di significati che rimandano alla nostra contemporaneità, dal terrorismo allo scontro di civiltà, che però dovendo condividere un terreno che non gli appartiene, perchè la storia rimane comunque la ricostruzione di un ritorno alle origini operato attraverso le strutture del romanzo di formazione, finiscono per non avere la forza e la forma con cui invece questi temi dovrebbero essere denunciati.

Ed alla fine, pur riconoscendo al regista una compostezza della messinscena - dall'understatement recitativo alla sobrietà compositiva delle inquadrature - che rende giustizia in qualche modo al carattere schivo ed essenziale della materia, rimane forte la sensazione di un lavoro irrisolto e poco appassionante. Distribuito dalla 01 in un numero di sale da film di seconda fascia "Il primo uomo" ha comunque trovato i suoi estimatori vincendo il premio della giuria all'ultimo festival di Toronto.
(pubblicato su ondacinema.it)

martedì 17 aprile 2012

Posti in piedi in paradiso

Ogni volta che un film di Verdone arriva nelle sale sembra quasi impossibile evitare  paragoni con la tradizione della commedia all'italiana e di conseguenza gli amarcord pieni di rimpianti per un stagione che appare ancora più irripetibile se confrontata con il panorama contemporaneo del nostro cinema. Quello che in molti casi appare un esercizio di retorica perché certamente i vari Brizzi, Miniero e Genovese con i loro film non hanno nessuna intenzione di prendere in eredità la tradizione di quel cinema, nel caso di Verdone diventa invece un accostamento appropriato. A dirlo non è solo il lavoro operato sul corpo, che attraverso infinite variazioni dello stesso tipo umano ne hanno fatto una maschera capace di contenere pregi e difetti dei nostri compatrioti ma anche la funzione assolta da un cinema chiamato a fustigare i costumi della società contemporanea. Certo si potrebbe discutere sulla competenza e la qualità con cui l'autore romano ha lavorato all' interno del genere ma di certo l'ha fatto nella prospettiva e sull'esempio della tradizione più nobile. Per questo motivo dopo il deludente "Io, loro e Lara", tentativo di rilanciare la versione più impegnata del suo cinema approfondendo in maniera superficiale il rapporto tra il mondo laico e quello religioso, era necessaria una verifica per capire se le possibilità dell'artista ed il suo sguardo sulle cose non si fossero  definitivamente appannati. Ed invece per la reentrè Verdone alza la posta con una storia collettiva, - di buon auspicio il precedente fortunato e riuscito come "Compagni di scuola" - e tre personaggi maschili interpretati da altrettanti grandi attori, oltreche  all'immancabile presenza femminile - questa volta ad essere promossa è una Micaela Ramazzotti in grande ascesa - messi insieme per dare vita alla storia di una crisi, esistenziale, affettiva e soprattutto economica. Verdone prende in prestito il fallimento dei suoi personaggi per parlare dell'Italia di oggi. Ed allora si capisce che il dramma del tempo presente non potrebbe essere diverso se è vero che Ulisse, Fulvio e Domenico devono fare i conti con matrimoni andati a pezzi, alimenti da pagare ed una situazione lavorativa che non gli consente neanche di affittare un appartamento. Ed è proprio la necessità di condividerne uno che metterà le ali ad un incontro/scontro di personalità ed obiettivi, con i nostri eroi impegnati a scoprire se stessi attraverso il confronto con i difetti degli altri. Se il confronto tra gli opposti è uno degli schemi più sfruttati per far ridere lo spettatore, ed il film non manca di episodi  divertenti e paradossali - su tutti un furto organizzato alla maniera dei soliti ignoti con Fulvio e Domenico che sbagliano appartamento e fanno venire uno spavento agli anziani proprietari - Verdone si serve del contraddittorio non solo per inserire le sue smargiassate ma anche per far emergere con lucida  malinconia una contemporaneità in cui c'è poco da salvare ("siamo tutti miserabili" esclamerà ad un certo punto uno sconfortato Ulisse). Un pessimismo che prende in prestito le cronache dei giornali, con ninfette che fanno girare la testa ad uomini maturi, attrici disposte a vendersi per un provino con il regista di successo, giovanissime alle prese con i ritocchi della chirurgia plastica, playboy che prendono il viagra per essere all'altezza delle aspettative, per dirci che nonostante tutto la famiglia, qualunque essa sia - nel film quella tradizionale è praticamente inesistente - rimane l'unica ancora di salvataggio per sottrarsi all'indifferernza del mondo. Pur rimanendo se stesso, per la solita tendenza a salvare il salvabile non affondando mai il colpo, ed anche per una retorica che non gli impedisce finali conciliatori come quello del film, che immortala il ritorno alla normalità con un collage di immagini celebrativo del ricongiungimento familiare, "Posti in piedi in Paradiso" ci consegna un Verdone più equilibrato, disposto a fare un passo indietro con una messinscena più accurata, attenta ad armonizzare i caratteri e gli stili di recitazione, con in più l'intuizione di un Marco Giallini in versione mattatore che nel ruolo di un cialtrone a tutto campo  ricorda, lui si, i  mitici mostri di Risi e Monicelli. Tra pregi e difetti, quello di Verdone pur non essendo un capolavoro è un film che ha il merito di non arrendersi all'opportunismo dominante del box office italiano.

domenica 15 aprile 2012

Ciliegine

La decisione di passare dietro la macchina da presa per un attore anagraficamente maturo è quasi sempre il frutto di due necessità: la prima assomiglia ad un riflesso spontaneo, alla naturale conseguenza di una quotidianità educata per forza di cose all'osservazione dei gesti e delle cose; la seconda invece è una specie di salto nel vuoto, un modo per rimescolare le carte alla ricerca di nuove emozioni. Per queste ragioni quello di Laura Morante, attrice nobile del cinema italiano è un debutto che non ci ha stupito. Un caso non isolato se si pensa alla prima volta di Stefania Sandrelli avvenuta non più tardi di un anno fa ed a quella già annunciata di Valeria Golino, ma reso particolare dalla scelta della neo regista di girare in Francia, a Parigi per l'appunto, e con attori di quel paese. Una decisione legata a motivi personali certamente - l'attrice è stata legata sentimentalmente ad uno dei produttori - ma anche ad un'attenzione nei suoi confronti che i film di Moretti hanno certamente contribuito a costruire.

Dalla capitale francese il film della Morante prende in prestito oltre agli scorci di un paesaggio urbano iconograficamente perfetto per ospitare la materia amorosa che presiede la storia, anche la capacità di mantenersi elegante e disinvolto indipendentemente dalle sua qualità, che in questo caso risulta condizionata in negativo dalla volontà della debuttante di non rischiare nulla sia in termini di interpretazione che di regia. Così a cominciare da Amanda, il personaggio principale, che la Morante decide di ritagliarsi ad immagine e somiglianza di quelli da lei interpretati nel corso di una carriera, che salvo rari eccezioni l'hanno vista alle prese con una femminilità complicata da un ego in perenne contrapposizione, e quasi sempre riversato sullo schermo con un inesauribile campionario di tic e di nevrosi, il film replica un modello di commedia romantica che sembra la copia di quella Alleniana, ripresa nella supremazia dei dialoghi, nella proposizione di luoghi e situazioni - con i personaggi impegnati in interminabili discussioni ed inconsapevolmente chiamati a riprodurre una mappa geografica ed ideale fatta di camminate lungo le vie della città e dei parchi, di attese davanti al cinema o di incontri nei bistrot - nel contrappunto musicale allegramente retrò, nella psicanalisi richiamata nell'essenza stessa del personaggio di Amanda, spinta nel suo comportamento compulsivo - la continua richiesta di attenzioni puntualmente disattese dai suoi partner - da una patologia che la storia stessa definisce con il termine scientifico di androfobia per cercare di definirne la paura atavica nei confronti degli uomini.

Un peccato di "gioventù" diremo noi a cui però si aggiungono quelli di una sceneggiatura basata su un incipit troppo debole, in cui la presunta omosessualità di Antoine, l'uomo di cui Amanda si innamora, non ha un riscontro oggettivo ma viene desunta dalla gentilezza di comportamenti che in realtà sono la base della civile convivenza, e di conseguenza nell'incapacità di tradurre quell'equivoco, Antoine è ovviamente etero ed innamorato della donna, con le sorprese, i colpi di scena ed il divertimento che normalmente ci si aspetterebbe da un simile intreccio. In questo modo il film scivola via senza colpi di coda, sprecando una talento come quello di Isabelle Carrè, qui nel ruolo di Florence, l'amica del cuore, con una presenza che non acquista mai spessore ma serve più che altro a fare il punto della storia, sottolineandone i passaggi più importanti con commenti e propositi che scaturiscono dalle domande che la donna rivolge al marito psicologo, incaricato per interposta persona di aiutare Amanda a districarsi dalle trappole mentali e affettive che lei stessa si costruisce. Eppure nonostante queste mancanze "Ciliegine" riesce ad essere per discrezione ed eleganza un prodotto anomalo nel panorama del nostro cinema, ed e forse questa diversità, che concorre a farlo sembrare meglio di quello che effettivamente è.
(pubblicata su ondacinema.it)

mercoledì 11 aprile 2012

Good as You

L'intento era sicuramente quello di scherzare e di divertirsi. Lo si capisce dai fotogrammi dei titoli di testa, con il gioco linguistico che prende in prestito le lettere della parola gay per ottenere il nome del film, "Good As You" appunto. E poi ancora sempre in quel contesto nella scelta di presentarsi con dei disegni animati che nei colori vivaci e nella forte stilizzazione ricordano da vicino quelli delle commedie di Rock Hudson e Doris Day, un riferimento a cui questo prodotto, almeno nella vivacità dei suoi personaggi, non si sottrae. Caratteristiche quella della trasformazione e dell'eccesso visivo che la pellicola mantiene costantemente a regime lavorando contemporaneamente lungo due direzioni: la prima, quella più evidente, si preoccupa di costruire un atmosfera stravagante ed eccezionale attraverso associazioni di colore effettuate per contrasto, oppure nella completa predominanza di una tonalità (l'azzurro ad esempio è quella dominante di molte sequenze) ed ancora nella presenza di una fotografia che a secondo dei casi alterna i chiaroscuri alla luce neutra; la seconda, quella che dovrebbe dare sostanza al film, si organizza per rendere precarie le certezze che la sceneggiatura costruisce attraverso le dichiarazioni di intenti di personaggi, almeno a parole intenzionati a perseguire una certa stabilità affettiva.
Nel far questo il film utilizza una simmetria piuttosto schematica che prevede all'interno delle varie coppie dinamiche relazionali pressoche identiche, con uno dei componenti fedele a quel legame e l'altro alla costante ricerca di alternative che ne soddisfino la voglia di trasgressione. Un apertura narrativa che regala alla storia la possibilità di rinnovarsi attraverso il continuo interfacciarsi che i protagonisti, con il loro stile di vita movimentato ed inquieto, riescono ogni volta a ricreare. Il valzer delle coppie mette in mostra così una sessualità priva di sensi di colpa, sdoganata da retaggi omofobici e libera di esprimersi in tutte le sue sfumature. Un trionfo di fantasia e vitalismo, di gioia e di dolore che prevede una sola condizione, quella di essere gay. Ed è proprio sulla completa esclusione del mondo etero, assente, oppure cancellato quando fa capolino attraverso i dubbi del personaggio interpretato da Daniela Virgilio, bisessuale irrisolta anche nel tentativo di lasciarsi alle spalle un passato lesbo fidanzandosi a sua insaputa con un omosessuale pentito, che il film punta - "la prima gay comedy italiana" è la definizione che campeggia sulla locandina del film - per costruirsi il suo plus valore.
Una peculiarità destinata a rimanere tale solamente sul piano formale, ma sconfessata da una serie di difetti che finiscono per omologare "Good As You" alle produzioni di più facile consumo, quelle in cui lo sviluppo psicologico dei caratteri si avvicina allo zero, dove l'intreccio della storia si snoda in maniera scontata quand'anche poco approfondita, ma soprattutto dove il coinvolgimento dello spettatore è stimolato con battute da avanspettacolo ("Che voi siate maledetti, che i vostri figli abbiano il pisello piccolo" è quella pronunciata da uno dei personaggi per esprimere la propria frustrazione) e siparietti che riducono il mondo gay ad una pantomima così stereotipata e superficiale da annullare anche la componente ludica che invece il film vorrebbe riflettere. Mariano Lamberti regista dal pedigree autoriale - i suoi precedenti lavori da "Non con una bang" del 1998 a "Napoli 24" opera collettiva che vuole documentare il degrado della capitale partenopea ci parlano di un cinema impegnativo ed impegnato - scrive e dirigere in funzione di un'immediatezza che trova i suoi limiti nel continuo fluttuare dei registri - dal melò alla Ozpetek alla commedia sul modello dei cinepanettoni - e dello stile, con la voce fuori campo, invadente nella prima parte e poi di colpo assente, ed i balletti molto kitsch, inseriti qua e là con la logica dell'effetto a breve termine. In questo modo il film privo di un adeguato supporto, e con una recitazione forzatamente sopra le righe, non riesce a lasciare il segno, consegnandosi ad uno sconfortante anonimato.
(pubblicata su ondacinema.it)

venerdì 6 aprile 2012

ACAB



L'inizio è una lunga sequenza dove con un montaggio incrociato ci vengono presentati i protagonisti della storia. Cobra, Mazinga, Negro sono i nomi di battaglia dei tre poliziotti del reparto celere riassunti in quelle scene rubate ad un frammento delle loro rispettive esistenze. Il primo insegue e malmena il pirata della strada che stava fuggendo dopo averlo investito; il secondo blocca uno spacciatore mentre è a fare la spesa con la figlioletta; il terzo si ritrova in questura per riportare a casa il figlio che è stato fermato dalle forze dell'ordine. Le loro sono ancora vite senza nome, facce che pretendono rispetto senza alcun biglietto da visita; la notte a dipingergli nel volto un abisso che di lì a poco impareremo a conoscere fino in fondo. Per il momento la cosa più importante è assistere a quello che vediamo: un privato che non riesce a svestire l'uniforme.

Teso, violento, sincopato, abituato a farsi strada tra le maglie di una metropoli trasformata in un campo di battaglia, il prototipo umano al centro della storia è abituato ragionare sulle opportunità che gli assicurano la sopravvivenza, in un confronto esistenziale raramente alla pari, consumato tra le gradinate di uno stadio popolato da belve inferocite, oppure in una terra di nessuno, dove lo stato si fa vivo solamente quando c'è un conto da saldare. Il film di Stefano Sollima si sviluppa proprio da questo punto di partenza, assunto come dogma inconfutabile, in cui l'impossibilità di ritornare ad essere normali dopo l'esercizio delle proprie funzioni viene fissata nel sistematico alternarsi di scene e situazioni caratterizzate da scelte comportamentali che non distinguono tra lavoro e tempo libero. Da quel momento l'evolversi dell'intera vicenda, nella mancanza di confine tra un ordinanza di sgombero da eseguire riducendo al massimo il rischio di effetti collaterali, e la vendetta contro un gruppo di immigrati eseguito per conto terzi, finirà per rendere impossibile ogni tentativo di distinzione.

Quello che conta, al di là della strumentalizzazione in chiave politica e sociale (non a caso il senso di frustrazione nei confronti di un sistema che non tutela i cittadini è accennato, e per di più delegato a chi ormai non fa più parte del sodalizio) è un senso di appartenenza continuamente ribadito. In questa direzione è chiaro il messaggio che il Cobra impartisce al neo assegnato con fare perentorio: il collega è un fratello, il gruppo una famiglia da salvaguardare in ogni occasione, anche a costo, come capiterà negli scampoli conclusivi della vicenda, di tradire quegli interessi, dei cittadini e della nazione, poco prima legittimati dal rischio dell'incolumità personale al quale gli stessi agenti si sottopongono ogni volta che lasciano la caserma. In un quadro simile, e con la storia che gradatamente si concentra sulla pista seguita dal Cobra per catturare il colpevole del ferimento del suo comandante (Mazinga), il film ci mostra le conseguenze di un'etica che riduce le possibilità di condividere affettività d'altro tipo, con famiglie mai formate, quella del Cobra è un sorso di birra consumato in solitudine, oppure complicate dall'assenza di chi dovrebbe governarle con la propria presenza Al suo esordio sul grande schermo Sollima doveva affrontare molte sfide: innanzitutto quella di confermare nel passaggio dal piccolo al grande schermo quanto di buono era stato detto di lui a proposito della trasposizione televisiva di "Romanzo criminale" (2005). Poi, forse la cosa più importante, quella di evitare la retorica e l'ideologia che spesso accompagna la rappresentazione del potere nelle sue diverse manifestazioni. Ed infine la possibilità di realizzare un prodotto in grado di far pensare evitando di mortificare le necessità dell'intrattenimento.

A conti fatti il tabellino fa segnare il pieno dalla parte del segno più perché il film, pur ricalcando nel paradigma del poliziotto consumato dal male del suo lavoro modelli e personaggi di tanto cinema americano, così come, nella rappresentazione di una comunità tribù, riconosciuta nella condivisione degli spazi - lo schieramento dell'assetto antisommossa, l'abitacolo del furgone che ogni volta li riporta sul luogo del delitto, gli spogliatoi del posto di lavoro - e dei rituali - la partita di rugby, la birra con gli amici, l'iniziazione dei nuovi arrivati - gli esempi forniti da alcuni campioni del genere come "Tropa de elite" (2007) e "Ha Shoter", premio speciale della giuria all'ultimo festival di Locarno, "ACAB" riesce a crearsi un segno distintivo. Non solo nel referto di un malessere che nel ritratto di un istituzione costretta a creare dal di dentro le motivazioni per tirare avanti, riesce a parlare di una crisi spirituale e sociale che a raggiunto livelli allarmanti, ma anche nella capacità di raccontare utilizzando una dialettica che, anteponendo la fluidità della cinepresa alla densità delle interpretazioni, riesce a restituire l'agonismo tormentato dei suoi protagonisti.

A suo agio tanto nelle inquadrature d'insieme, quando la telecamera allarga il suo sguardo al mondo circostante che in quelle ravvicinate, dove l'indagine si sofferma su un battito di ciglia, Sollima si avvale di una fotografia dai colori lividi, desaturati quanto basta per raffreddare una materia di per sé incandescente, e di un 
dp che, nell'alternare lo stile modaiolo della musica da classifica a quella acida e distorta realizzata dai Mokadelic sottolinea di volta in volta la successione emotiva. Un plauso speciale lo merita però la direzione attoriale e le performance che da Favino a Giallini, passando per Domenico Diele e Filippo Nigro sono il punto di forza di un'opera che non ha paura di essere quello che è: un prodotto di genere, senza infingimenti e con molto mestiere.

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martedì 27 marzo 2012

Romanzo di una strage

Marco Tullio Giordana come James Ellroy. Il paragone a prima vista stridente per le differenze di mestiere e di metodo – il primo si attiene ai fatti della storia, il secondo li mescola ad elementi di fantasia – diventa invece appropriato in un disegno generale che per entrambi ha come unico scopo quello di raccontare con le forme del romanzo criminale ed in maniera definitiva il lato oscuro dei rispettivi paesi. Parafrasando uno dei titoli più famosi del grande romanziere si potrebbe dire che Giordana firma il suo “Italian Tabloid” fissandone le origini a partire dalla strage di Piazza Fontana che nel 1969, con la morte di 17 persone, diede il via alla cosiddetta strategia della tensione, una forma di governo occulto che utilizzava il terrorismo di destra e di sinistra ma anche anarchico, per destabilizzare i tentativi di un cambiamento politico e culturale, prefigurati dall’ascesa del partito del partito comunista italiano che in quegli anni si andava affermando come la forza politica capace di insidiare lo strapotere della democrazia cristiana. L’esplosione di quella bomba fu il Big bang che spostò in avanti i limiti del lecito dando il via ad una stagione di terrore che assomigliò ad una guerra civile giocata all’insaputa del paese. A rendersene conto nel film sono il commissario Calabresi, responsabile delle indagini che portarono al fermo dell’anarchico Pinelli, della cui morte avvenuta in circostante mai chiarite fu ingiustamente accusato, ma anche Aldo Moro, statista inviso ai suoi compagni di partito ed all'America, in virtù di un apertura al partito comunista italiano che rischiava di mettere in crisi gli equilibri dell'allenaza atlantica in Europa, e molti di quei politici e funzionari di stato che nell'opera di depistaggio agirono al servizio dei vari centri di potere.

Ma il film è soprattuto una contrapposizione di uomini ed organizzazioni, di istituzioni che non esistono più – tra questi il SID (servizio segreto militare) – di movimenti come quello anarchico che hanno ormai perduto la loro forza aggregativa, oppure di gruppi clandestini armati come quello facente capo al generale Valerio borghese, e poi ancora di figure come Valpreda, Ventura, Stefano delle Chiaie, Guido Giannettini e tanti altri che solo a pronunciarne il nome riaprono antiche ferite. Se la storia è nota e non può essere riscritta (la strage di piazza Fontana non ha ancora trovato un colpevole) “Romanzo di una strage” ha il pregio di ricordarla in maniera corretta. Giordana ci mette dentro tutto ed inevitabilmente finisce per semplificare fatti e personaggi. A parte Calabresi, a cui il film decide di affidare il ruolo di eroe borghese, capace di attraversare la storia con un humanitas che deve molto all’asciuttezza interpretativa di Valerio Mastandrea, ormai pronto per il grande cinema, e parzialmente Pinelli, vittima sacrificale capace di riassumere con la sua tragica morte il senso di ingiustizia che pervade le cose, il film va colto nella sua propensione a ricostruire il quadro generale e nel riuscire a mostrarlo in diretta, riproducendo dinamiche e connessioni che funzionano nel loro complesso ma sono carenti, per mancanza di tempo, quando devono rappresentare se stesse.

Alla pari di quello che avevamo ammirato ne "La Talpa" anche quello di Giordana è un mondo chiuso nelle proprie ossessioni (il film è quasi esclusivamente girato in interni), imprigionato da logiche comprensibili sono a coloro che le hanno sposate (la moglie di Calabresi e quella di Pinelli per esempio ne sono totalmente escluse)e che ad esse hanno sacrificato la vita.

Caratterizzato da una fotografia plumbea, ridotto in ambienti poco accoglienti, scarsamente illuminato "Romanzo di una strage" aggiunge poco a chi quegli anni l'ha vissuti, mentre può aiutare le generazioni più giovani a comprendere il presente di cui questa storia è il frutto. Il titolo fa riferimento ad un articolo di Pier Paolo Pasolini che nel denunciare i mandanti delle stragi definisce le loro versioni dei fatti come un "romanzo". A distanza di tempo ed alla luce di questo film aveva ragione.

lunedì 26 marzo 2012

10 regole per fare innamorare


Negli anni 80 ci fu addirittura una canzone, "Teorema" di Marco Ferradini che cristallizzava la formula per fare innamorare una donna. In precedenza, parliamo dell'epoca dei lumi, cioè nel tardo settecento si credette addirittura di poter adottare i parametri della ragione per imbrigliare sentimenti ed emotività. Calcoli matematici, schemi psicologici, esperienze di vita vissuta, qualunque sia il modo di parlarne e nonostante gli sforzi messi in campo, l'amore resta sempre sfuggente e imprevedibile. Lo sa bene Roberto (Vincenzo Salemme), quando nell'illustrare le regole che permetteranno al figlio di conquistare la ragazza dei suoi sogni, sarà costretto ad ammettere che per quel sentimento non esistono comportamenti preconfezionati ma una predisposizione inspiegabile e misteriosa. Affermazione che farebbe pensare ad un approfondimento che però il film non ricerca preferendo di gran lunga seguire l'esempio di certo cinema giovanilistico di matrice americana, che al cervello preferiscono un marketing visivo di stampo catodico e pubblicitario, con un'attenzione concentrata quasi esclusivamente sull'estetica di personaggi giovani carini e disoccupati alla costante ricerca dell'empatia dello spettatore. Così, mentre il film mette in fila una dopo l'altro i tentativi per fare innamorare la ragazza, rigorosamente preceduti dalla lezione teorica che il professore trasforma in simposi goliardici e mangerecci, davanti ai nostri occhi si delinea lo spaccato di una gioventù attenta a non trascurare ogni dettaglio del proprio look, ma sotto tutela dal punto di vista del discernimento. Una carenza che paradossalmente la sceneggiatura evidenzia quando decide di aiutarli con le ovvietà suggerite dal personaggio interpretato da Salemme, tanto simpatico quanto scontato nel proporre slogan ("conosci cosa le piace e fai finta che piaccia anche a te") che un ragazzo normale dovrebbe conoscere a memoria e che invece guardando le facce degli interessati risultano pillole di saggezza infinita. Un'improbabilità che non trova riscatto né sul piano del divertimento - l'attore napoletano può contare su finestre di comicità da gag televisiva come quella che lo vede impegnato nel botta e risposta con l'inquilino dello stabile a cui ha citofonato per errore - né su quello dell'intrattenimento, giocato interamente sulla goffagine e sull'ingenuità del protagonista che, nel tentativo di raggiugere il suo scopo, rimarrà coinvolto in situazioni a metà strada tra il ridicolo e l'inverosimile, con fughe, capitomboli e salvataggi all'ultimo minuto più adatte a una slapstick comedy che al registro sofisticato a cui comunque il prodotto aspira.

Al suo terzo lungometraggio Cristiano Bortone mette a disposizione la sua ecletticità di documentarista, produttore ("Samir", 2004) e uomo di televisione per un film che strizza l'occhio al box office in maniera garbata, promuovendo volti nuovi o quasi come quello di Guglielmo Scilla, disinvolto ma compiaciuto nel ruolo del giovane innamorato ed Enrica Pintore, penalizzata da un personaggio monocorde, in quello dell'oggetto del desiderio. Peccato che lo faccia con poca fantasia nella scrittura (la sceneggiatura è frutto di una collaborazione con Fausto Brizzi e Pulsatilla) ed in maniera discontinua in termini di regia, troppo indulgente con i due protagonisti ed un pò meno con chi invece, parliamo per esempio di Fatima Trotta nel ruolo di Mary, la ragazza che insieme ad altri due amici condivide l'appartamento di Marco, avrebbe le qualità per primeggiare. Sul piano produttivo è interessante notare il realismo di una casa di produzione come la Lucky Red di Andrea Occhipinti che in tempi di magra si adatta alle circostanze abbassando le pretese e lavorando su un prodotto che mira agli incassi senza alcuna reticenza. Un segno dei tempi.

lunedì 19 marzo 2012

Magnifica presenza

L'avevamo lasciato con quella scena magnifica, in cui in un misto di nostalgia e felicità i personaggi della storia si accomiatavano dal pubblico sulle note musicali di un ballo che, nell'armonia dei suoi gesti, ricomponeva in maniera ideale la frattura tra passato e presente. Un finale, quello di "Mine vaganti"(2011), che sintetizzava felicemente la summa poetica del regista italo-turco e ricuciva lo strappo seguito all'uscita di "Un giorno perfetto" (2008) accolto con ingiustificata acrimonia dagli addetti ai lavori e con scarso interesse da parte del pubblico. Una battuta d'arresto ripagata da un successo inaspettato e foriero di nuove prospettive, anche straniere, per una carriera che si pensava incanalata all'interno dei confini nazionali.

Deve essere stata questa consapevolezza unita alla ritrovata autostima a ispirare "Magnifica presenza", una storia che se da una parte ripropone attraverso la centralità di un personaggio, Pietro (Elio Germano) diviso tra aspirazioni mondane e vicissitudini amorose, la dicotomia esistente tra realtà e rappresentazione, dall'altra sembra tirare le fila di un'evoluzione artistica arrivata all'apice delle sue possibilità, e per questo bisognosa di una riflessione che la prenda in considerazione nella sua totalità. Una lezione di cinema sotto mentite spoglie e anche un compendio cinematografico che sull'esempio di capolavori come "Otto e mezzo", e in minor misura "Stardust memories", fa dialogare due facce della stessa medaglia: l'arte con le sue regole, anche crudeli se pensiamo al monologo egocentrico e spietato di Livia Morosini, diva teatrale scomparsa dalle scene in maniera misteriosa, e la vita, quella personale e privata dell'autore, con cui il film si identifica quando nell'annullare le barriere tra la dimensione metafisica dei fantasmi che occupano la casa dove Pietro si è appena trasferito, e quella terrena vissuta dal loro interlocutore (a un certo punto Pietro e i suoi visitatori si ritroveranno a condividere anche la cena), porta a compimento il desiderio autobiografico di riportare in vita amici e parenti prematuramente scomparsi.
Il film di una raggiunta maturità, si potrebbe definire così "Magnifica Presenza" che, alla pari di "Habemus Papam" di Nanni Moretti, permette a chi lo ha realizzato di rivestire i temi di sempre con una legittimità culturale che in entrambi i casi, ed in maniera diversa, si serve del teatro e dei discorsi che gli appartengono per realizzare questa impresa. Ma il problema in questo caso non sta tanto nel progetto quanto nella realizzazione che non riesce a tenere in piedi in maniera organica la quantità di spunti, personaggi e situazioni poste in essere. Così, seguendo i passi del protagonista che ad un certo punto perde le sue caratteristiche per diventare il traghettatore capace di far compiere al film quegli spostamenti, anche fisici, in grado di soddisfarne l' intento omnicomprensivo, la storia si sfilaccia progressivamente introducendo personaggi come quello delle due bariste svampite e colorate - il verso ad Almodovar presente in altre parti è qui chiaramente manifesto - che fanno il filo a Pietro, del vicino di casa invaghito o forse no del nuovo inquilino, oppure di un travestito che aiuta Pietro a ritrovare Livia, figura attorno alla quale ruota il mistero e anche la felicità dei fantomatici visitatori, destinati a eclissarsi senza lasciare alcuna traccia.
E anche navigando a vista, concentrandosi esclusivamente sul filone principale del film, ovvero il rapporto tra l'aspirante attore (dettaglio risolto con due provini che fanno sorridere per la loro improbabilità) e gli ansiosi spettri, non si può non notare la preponderanza dell'effetto glamour e caricaturale rispetto a quello introspettivo (facendo parte di una compagnia teatrale i nostri si vestono e posano come se fossero ancora sulle scene) abbozzato e insufficiente per giustificare l'utilizzo di un cast la cui importanza (Margherita Buy, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini e Andrea Bosca) avrebbe meritato sorte migliore. Il risultato è invece una ronda in cui si fa fatica a entrare e di cui si resta ammirati per maestria di impaginazione, ricchezza di costumi eterogeneità attoriale, ma che fa rimpiangere il coinvolgimento immediato e passionale a cui Ozpetek ci aveva fin qui abituato.
 
(pubblicato su ondacinema.it)

martedì 13 marzo 2012

La -bas -Educazione criminale



Le mani sulla città. Sono quelle della camorra e di tutti quelli che come lei cercano di strappare un angolo di paradiso ad una terra condannata dall'egoismo degli uomini. Con ogni mezzo ed a ogni costo. Tra di loro si ritrova quasi per caso Yussouf, giovane africano giunto a Castel Volturno con il sogno di chi l'ha già preceduto in quel viaggio. La speranza di lavoro ed una vita dignitosa si infrangono con le difficoltà di una vita vissuta ai margini. Così quando il giovane chiede aiuto allo zio diventato nel frattempo un boss della locale comunità africana si ritrova immediatamente coinvolto in un traffico di droga a cui contribuisce smerciando la letale sostanza. Un'attività portata avanti con successo e determinazione, in cui entrano in gioco anche l'amore e l'amicizia, e che durerà fino a quando gli interessi dei nuovi arrivati non interferiranno con quelli delle potenti cosche presenti sul territorio. Da quel momento nessuno sarà più al sicuro.

Scavalcando la cronaca a cui il film comunque si consegna nel finale, facendo confluire la vicenda di Yussouf nella strage di Castel Volturno del 2008 in cui persero la vita sei immigrati africani uccisi da una gang di camorristi,"Là-Bas" riscrive la parabola del figliol prodigo scandendola in altrettante tappe, ciascuna delle quali, la fratellanza accolta e poi rifiutata nei confronti di chi gli ha dato asilo, la progressiva discesa agli inferi lavorando per conto dello zio, la presa di coscienza ed il ritorno sui propri passi, concorre a delineare un gangster movie anomalo per l'assoluta mancanza di enfasi con cui è trattata la violenza. Collocato in un contesto fortemente caratterizzato dalla scelta di girare nei luoghi dove i fatti sono realmente accaduti e per la rinuncia al doppiaggio dell'idioma parlato all'interno della comunità africana ( principalmente il francese ma anche l'inglese, entrambi sottotitolati)ed immerso in un atmosfera di alienazione a cui non è estranea la decisione di diradare il paesaggio geografico così come quello riconducibile alla letteratura malavitosa, trasposta in maniera concreta nelle facce da sgherro dei camorristi senza nome che si interfacciano con lo zio Moses, il mondo di "Là-Bas" è lo specchio di una società che preferisce non guardare, nel film la presenza dello stato e delle sue istituzioni sono una chimera destinata a rimanere tale, rinunciando a difendere i più deboli per evitare di fare i conti con le responsabilità che ne derivano.

Evitando la retorica sull'immigrazione, raccontata dall'interno con un personaggio che ad un certo momento si trasforma consapevolmente (e per comodità) da vittima a carnefice, e la cui redenzione avviene solamente quando si troverà con le spalle al muro, l'esordiente Guido Lombardi traccia un quadro della situazione a dir poco sconfortante. Mettendo a confronto due realtà criminali, apparentemente diverse eppure uguali nel perseguimento delle rispettive finalità - la coercizione dello zio Moses nei confronti del nipote non differisce da quella ben nota messa in atto dalla controparte - il regista sembra dirci che il male appartiene agli esseri umani senza alcuna distinzione, e non risparmia neanche chi sceglie apertamente di non parteciparvi, se è vero che le vittime della strage erano persone assolutamente innocenti. Girato senza la frenesia che contraddistingue chi lavora sul campo e costruito su un insieme di immagini che nell'alternanza tra primi piani, e campi lunghi (rari ma significativi) riesce ad essere rappresentazione oggettiva ed insieme emozionale, il film di Guido Lombardi autore anche della sceneggiatura ha vinto il premio quale migliore opera prima all'ultimo festival di Venezia a cui ha partecipato nella sezione dedicata alla Settimana internazionale della critica. Una vittoria meritata.
(pubblicata su ondacinema.it)

martedì 6 marzo 2012

L'arrivo di Wang




Da "l'ultimo terrestre" a "l'arrivo di Wang" il cinema italiano fa le prove generali per riappropriarsi di un genere che i produttori sembravano aver cancellato dai loro programmi. Ed invece complice il festival veneziano, dove entrambi sono stati presentati  la fantascienza made in Italy fa la sua réentre proponendo a pochi mesi di distanza due opere che seppur con diversità di stile ed anche di possibilità realizzative tornano a parlare il linguaggio della fantasia proponendo la visione di un mondo alle prese con una possibile invasione aliena. Insomma un genere nel genere se non fosse che i Manetti Bros ci mettono del loro per inventarsi una storia che pur rientrando di diritto nella categoria riesce allo stesso tempo a mantenere intatta la loro identità.  Se infatti la trama si sviluppa attorno ad un misterioso interrogatorio in cui sono coinvolti una giovane sinologa ed un losco agente dei servizi segreti la sorpresa consiste nel fatto che Wong, l'alieno giunto sulla terra con propositi che l'interrogatorio deve svelare si esprime utilizzando il cinese mandarino. Una situazione paradigmatica quella del confronto tra abitanti di diversi pianeti che i Manetti trasformano in un balletto drammatico ed al tempo stesso grottesco, in cui tanto la composizione dei caratteri, anomala per il modo in cui si comportano - l'agente è costantemente sopra le righe, la traduttrice sull'orlo di una crisi di nervi, l'alieno impacciato ed a volte persino buffo - quanto il contesto in cui si svolge - la drammaticità della situazione è continuamente sabotata  dalla presenza sui generis  della lingua cinese - concorrono a decostruire  l'incontro del terzo tipo, avvalendosi di continui cambi di direzione, affidati ai punti di vista dei personaggi, colpevolista quello di Curti (un cattivissimo Ennio Fantastichini) convinto della cattiva fede del visitatore, assolutorio quello di Gaia (la camaleontica Gaia Cuttica , attrice feticcio dei registi) schierata dalla parte del più debole più per i metodi inquisitori di chi lo interroga che per propria convinzione. E senza far pesare troppo suggestioni sociologiche e riferimenti alla contemporaneità la vicenda riesce a far passare la metafora di un mondo dominato dal pregiudizio e da una conoscenza che si ferma sulla superficie delle cose. A perdere sarà sempre la razza umana, indipendentemente da schieramenti e ideologie.


Girato con un economia di mezzi che i due registi trasformano sempre in plus valore "L'arrivo di Wang" è un film ricco di linguaggi cinematografici, inventati di volta in volta per fornire il giusto contraltare alla performance dei personaggi. Concentrato in un unico spazio, il bunker asettico ed opprimente dove si svolge l'interrogatorio, l'occhio dei Manetti Bros si concentra sulle facce degli attori che si diverte a deformare con lenti fuori fuoco, grand'angoli  e sovrapposizioni di luce  per restituirne la dimensione di follia e di pericolo in cui sono precipitati i personaggi da loro interpretati. Ma il film ha nel contempo una costituzione materica e diremmo carnale quando, lavorando sui corpi c'è li mostra sottoposti ad ogni genere di afflizione: legati, colpiti, sudati e sanguinanti ma comunque sostenuti da un agonismo  che gli impedisce di arrendersi agli ostacoli che il destino gli mette sulla strada. Ed anche il comparto tecnico rappresentato da una squadra di giovanissimi, la Palantir Digital Media, contribuisce a questa consistenza creando un personaggio virtuale, Wang appunto, credibile per la varietà di espressioni ed una fisicità evidenziata dalla luce neutra che i registi hanno espressamente voluto per illuminare la loro creatura. Una scommessa vita quella dei Manetti, con i festival che fanno a gara per accaparrarsi il loro film e con il prossimo giunto al termine della lavorazione. Come dire che a loro la crisi gli fa un baffo.